Il 6 settembre 1957 muore a Sorrento Gaetano Salvemini. Laureatosi in lettere a Firenze nel 1896, a soli ventotto anni ottiene la cattedra di Storia moderna a Messina. Qui a causa del catastrofico terremoto del 1908 perde la moglie, i cinque figli e la sorella, rimanendo l’unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia.

Eletto deputato nel 1919, con l’avvento del fascismo si schiera immediatamente e convintamente contro Mussolini (nel 1925 sarà tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce). Arrestato a Roma dalla polizia fascista l’8 giugno del 1925, si rifugerà clandestinamente in Francia.

A Parigi è tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà nato per iniziativa dei fratelli Rosselli e di altri intellettuali democratici tra cui Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Francesco Fausto Nitti e Alberto Cianca. Su invito di Arthur Meier Schlesinger Sr., presidente del dipartimento di storia dell’Università di Harvard, dal 1933 è nominato membro a pieno titolo del dipartimento, ottenendo una cattedra di storia della civiltà italiana prendendo la cittadinanza statunitense. Tornato in Italia nel 1949 riprenderà l’insegnamento all’Università di Firenze, ottenendo nel 1955 dall’Accademia dei Lincei il premio internazionale Feltrinelli per la storia e la laurea honoris causa dall’Università di Oxford.

Scriveva Piero Calamandrei nel luglio 1955:

Ebbi occasione di vedere la prima volta Gaetano Salvemini da lontano, a Firenze, intorno al 1905, nella sala lunga e stretta della Camera del lavoro, che era allora in corso dei Tintori: lui laggiù in fondo, oratore al banco della presidenza, io ragazzo liceale pigiato tra la folla di ascoltatori accorsi a sentire una sua conferenza sul suffragio universale. Allora, come quasi tutti i ragazzi di quei tempi, non mi interessavo di politica. Ma il nome di questo professore di storia che andava in giro a fare i comizi, mi aveva incuriosito: e per sentirlo m’ero andato a cacciare nel budello di quella sala piena zeppa di operai, che, al lume delle mie recenti reminiscenze scolastiche, mi immaginavo dovesse essere una specie di club giacobino dei tempi della rivoluzione francese. Quando prese a parlare, la sua voce tagliente e incisiva, così diversa dall’oratorio di piazza, mi afferrò subito: e cominciai ad accorgermi con meraviglia, via via che andava avanti, che tutto quello che diceva riuscivo a capirlo (…) Poi venne il fascismo: e fu quello che definitivamente ci avvicinò. Appena finita la guerra, intorno alla piccola “Unità” di Salvemini si raccolsero da tutte le parti d’Italia giovani insofferenti della retorica nazionalista e assetati di verità e di onestà, nei quali l’esperienza della trincea aveva ridestato la coscienza del dovere politico, che era prima di tutto esigenza di capire il perché di tutto quel sangue: e fu proprio il “problemismo” salveminiano, agitato da quel suo piccolo foglio settimanale, che dette la prima educazione politica e la indelebile impronta di serietà morale a quella generazione di italiani che fece poi le sue prove nell’antifascismo e, per quelli che vi arrivarono vivi, nella Resistenza. (…) Tra i documenti della sua delicatezza e della sua sensibilità conservo come prezioso ricordo un foglietto senza firma, scritto da lui con inchiostro simpatico oggi sbiadito, che riuscì a farmi arrivare non so come, quando ormai l’Italia era schiacciata senza respiro sotto il peso della dittatura trionfante. All’estero egli si era gettato subito in quella lotta ad armi impari contro il fascismo, che doveva durare vent’anni: povero e isolato tra le diffidenze degli stranieri, armato solo di onestà e di verità, colle sole forze private di studioso e di polemista, contro un regime che anche fuori d’Italia allungava i suoi tentacoli di corruzione, di spionaggio e di assassinio. Ma aveva ad aiutarlo la libertà: e con questa compagna fedele egli poté durare venti anni, instancabilmente, a forza di conferenze, di articoli polemici, di libri rivelatori e di quotidiana propaganda individuale, a spiegare ai ciechi quale pericolo costituiva il fascismo per la pace del mondo e a cercar di separare dai delitti del fascismo la responsabilità del popolo italiano (…) Era commovente, quando tornò in Italia nel 1948 dopo più di vent’anni di lontananza, accompagnarlo in giro: e vedere con quale loquace entusiasmo egli incontrava, sotto i resti della catastrofe, la rinnovata volontà di vita e di libertà di un popolo intelligente e civile: e con quale emozione riscopriva queste città di cui nessuna somiglia all’altra, queste campagne fabbricate dall’uomo; questi volti di lavoratori ingegnosi, ognuno dei quali si è abituato a combattere da sé, colle sole sue forze, la sua battaglia quotidiana contro la miseria e contro il dolore.

Gaetano Salvemini è sepolto nel Cimitero Monumentale di Trespiano a Firenze. Nello stesso cimitero sono sepolti i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini. “Lì - scriveva in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Carlo e Nello Rosselli Valdo Spini su Patria indipendente, periodico dell’Anpi - fu costituito quello che si chiama il “Quadrato del Non Mollare”. Al vertice vi è la tomba dei Rosselli, con la spada fiammeggiante simbolo di Giustizia e Libertà e la scritta dettata da Piero Calamandrei: Carlo e Nello Rosselli/Giustizia e Libertà/ per questo morirono /Per questo vivono. Davanti alla loro tomba quattro grandi massi portano i nomi di protagonisti della vicenda del Non Mollare: Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Nello Rosselli, Traquandi ed Enrico Bocci. Quest’ultimo peraltro è solo simbolico. L’avvocato Enrico Bocci, diffusore del Non Mollare, si pose, durante la Resistenza a Firenze, nel 1944 alla testa di una Radio Clandestina, Radio Cora. Catturato dai nazifascisti, orribilmente torturato nella famigerata Villa Triste, il suo corpo non venne mai trovato. Una grande, terribile, ma gloriosa storia. Ottant’anni dopo ripetiamo a nostra volta il loro motto, più che mai attuale: Non mollare”.