Con il Dpcm dello scorso 8 marzo - e poi di nuovo del 3 novembre - chiudevano i musei, le biblioteche e gli archivi di tutta Italia. Sbarrate le porte, il mondo della cultura si è aperto a modalità alternative di fruizione, sfruttando le possibilità offerte dagli strumenti digitali e reagendo con prontezza e creatività alla chiusura forzata, lavorando da remoto alle attività di ricerca, catalogazione, comunicazione di contenuti on line.

Anche gli enti culturali del lavoro si sono reinventati, sperimentando tempi e metodologie completamente inediti che però hanno riconfermato l’importanza del radicamento sul territorio degli archivi, dei musei, delle biblioteche, la cui interrelazione si è dimostrata una infrastruttura indispensabile, oggi più che mai. L’elemento che ha accomunato le varie attività progettate e realizzate è stata la volontà di riportare le questioni del lavoro, intese nella loro accezione più larga, al centro del dibattito pubblico, culturale e scientifico. Un’esigenza che si è fatta ancor più pressante di fronte all’emergenza pandemica e che è si è concretizzata attraverso la scrittura di un Manifesto di intenti già firmato da enti e rappresentanti importanti del mondo della cultura e del lavoro.

“A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso - affermavano nel luglio appena passato gli estensori del Manifesto - i temi del lavoro, della cultura delle classi popolari, dei sentimenti di quelli che, in maniera gramsciana, possiamo definire come i gruppi sociali subalterni, dei movimenti politici e sociali e delle organizzazioni a cui hanno dato vita, sono progressivamente scivolati nella marginalità, scomparendo dal dibattito pubblico, pur sopravvivendo come oggetto di studi specialistici e di intervento di enti culturali dedicati, lasciati in eredità dalla feconda stagione dei decenni precedenti, oppure nell’attenzione di settori della società più impegnati.

In questi ambiti la marginalità si è risolta nella frammentazione, con un arcipelago di soggetti operanti (enti o singoli ricercatori) isolati, mancanti di reti stabili di connessione, di un quadro di riferimento comune a cui attingere e di un circuito dentro al quale confrontarsi.

Quest’esito è il risultato di una complessa convergenza di fattori politici, economici, culturali e sociali, che hanno caratterizzato un passaggio di secolo segnato dall’idea della ‘fine della storia’ e che hanno iniziato ad essere indagati e ricostruiti negli ultimi anni, allorché hanno preso vita numerose iniziative che sembrano spie di un’inversione di tendenza, pur a tutt’oggi limitata nella sua portata, volta a ridare vigore alla presenza pubblica di queste tematiche ed a ricostruire legami fra i soggetti esistenti. Al moltiplicarsi di iniziative, pubbliche e di ricerca, si affianca l’emergere di una nuova generazione all’opera, in un panorama plurale chiamato a confrontarsi con le grandi trasformazioni intervenute negli ultimi quaranta anni ed a costruire una rinnovata cornice di intervento.

L’elemento che accomuna tutte queste attività è la volontà di riportare le questioni del lavoro, intese nella loro accezione più larga come già richiamato, al centro del dibattito pubblico, culturale e scientifico. Un’esigenza che si fa ancor più pressante di fronte all’emergenza pandemica, che avrà ripercussioni sociali e sul mondo del lavoro di portata epocale, rispetto alle quali è urgente attrezzarsi.

Crediamo sia tempo di mettere a fuoco, in maniera aperta e pluralista, il ruolo che soggetti situati al crocevia fra il mondo degli studi e quello dell’attivismo nella società come gli archivi, le biblioteche specialistiche, i musei e tutti quegli enti che operano nel settore - con la duplice caratteristica di strutture di conservazione e di centri di produzione culturale - possono esercitare per dare il proprio contributo a questo rilancio, nella consapevolezza che la loro presenza, diffusa e radicata, costituisce un grande patrimonio documentario, tecnologico ed etnografico, nonché una risorsa per la conoscenza dei percorsi storici che danno forma al presente e per le politiche culturali del futuro”.

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Numerose sono le linee di intervento attraverso le quali il ruolo pubblico, culturale e scientifico di queste strutture può prendere forma e su cui sarebbe necessario investire. Sviluppare e approfondire un approccio al Labour o Worker’s Heritage complementare ma distinto da quello dell’Industrial Heritage. Curare la conservazione documentaria - intesa in maniera ampia come carte, pubblicazioni, registrazioni audio, video e audio-video, fotografie, oggetti, utensili e materiali iconografici, testimone della cultura materiale e immateriale, tecnologica e politica - insieme alle collezioni specialistiche delle biblioteche, percorrendo la strada del pieno riconoscimento della documentazione in tutte le sue forme come bene culturale. Favorire la partecipazione, per le epoche recenti, al processo del fare storia dei protagonisti. Potenziare la declinazione Labour nel campo di attività definito come Public History con mostre ed esposizioni temporanee o permanenti, curando la presenza sui social network, tentando di raggiungere il maggior numero di utenti attraverso la creazione di prodotti multimediali ampiamente fruibili e costruiti tenendo a mente le specificità del pubblico a cui sono destinati, facendo cultura storica non solo in pubblico, ma anche per e con il pubblico. Implementare e migliorare l’intervento nell’ambito dell’istruzione, sia per la didattica scolastica che per la formazione degli adulti, favorendo l’adozione di una metodologia critica e partecipativa, proponendo documenti, contenuti, laboratori, corsi e lezioni.

Per rendere concreti questi propositi gli estensori, insieme ad alcuni firmatari del Manifesto, hanno pensato di avviare un primo progetto condiviso e partecipato capace di evidenziare il duplice significato del lavoro negli enti culturali. Da una parte il lavoro che questi soggetti portano avanti e, dall’altro lato, come si rapportano con i temi del lavoro, con strumenti e pratiche diverse in stretta correlazione con le loro diverse identità, funzioni, origini.

L’idea, condivisa e partecipata, è quella di realizzare un sito web che racconti da un lato chi si è e cosa si fa attraverso una mostra virtuale sul lavoro e dall’altro lato che renda esplicito come quotidianamente nei beni culturali si lavora, con eccellenze e tutele da un lato, ma anche eccessiva precarietà e obbligato volontarismo dall’altro. Un sito che costituisca una fotografia dell’esistente con le sue eccellenze e con i suoi risultati ma anche una cartina di tornasole di quello che dietro questi risultati spesso si cela: volontariato, precariato, solitudine. 

Proprio quest’ultimo elemento ha animato l’idea della realizzazione dello spazio web dedicato, nato con la prospettiva principale di fare rete, unire, mettere insieme. Mettere insieme, anche grazie alle opportunità che oggi la tecnologia offre, dati, indirizzi e materiali, ma anche storie, individuali e collettive.

La call del progetto si articola in due momenti differenti e, se da un lato propone alle strutture di farsi conoscere e far conoscere il proprio lavoro attraverso la messa in mostra e l’esposizione virtuale dei materiali conservati, dall’altro si apre a storie, esperienze, racconti individuali e collettivi.

Un’indagine sulle situazioni di coloro che prestano quotidianamente la loro opera all’interno degli istituti che si occupano di lavoro appare un punto di partenza indispensabile per poi affrontare in modo più approfondito e con intento innovativo il nodo più generale del lavoro culturale, ma allo stesso tempo è importante, fondamentale, far conoscere le attività e i progetti - spesso taciuti ma eccellenti - delle varie realtà che nell’ambito del lavoro si muovono ottenendo risultati spesso poco noti ma encomiabili, conservando documentazione rara, non di rado unica, fondamentale per la scrittura della storia del nostro Paese. 

Le narrazioni individuali proposte dai singoli partecipanti dovranno consistere in testi nell’ordine delle 5.000 battute, mentre per contribuire alla esposizione virtuale sarà necessario inviare un numero massimo di 5 documenti (nella accezione generale del termine, documenti cartacei, audiovisivi, fotografici) che raccontino il lavoro nelle sue diverse e variegate forme e manifestazioni. I documenti dovranno essere accompagnati, anche in questo caso, da un testo di massimo 5.000 battute che racconti la storia dell’ente conservatore o proprietario e le sue principali attività e caratteristiche.

Una redazione, composta da Paolo Barcella, Stefano Bartolini, Patrizia Cacciani, Valeria Cappucci, Letizia Cortini, Maria Paola Del Rossi, Antonio Fanelli, Fabrizio Loreto, Debora Migliucci, Ilaria Moroni, Giovanni Rinaldi, Ilaria Romeo, Claudio Rosati, Giuseppe Sircana, Eugenia Valtulina, Roberto Villa, Vincenzo Vita e Sara Zanisi e aperta a ulteriori ingressi, avrà il compito di valutare i materiali e sovraintendere poi alla costruzione dell’architettura finale della mostra e del sito, in stretta sinergia con i partecipanti.

Ilaria Romeo è responsabile dell’Archivio storico Cgil nazionale

Per contatti, domande e approfondimenti scrivere a: lavoroenticultura@gmail.com