A tre anni dalla scomparsa di Alessandro Leogrande, riproponiamo un suo reportage nelle zone agricole del Basso Lazio. uscito su Rassegna nel giugno del 2009. Leogrande fu uno dei primi a raccontare quei luoghi e quegli uomini.

Via dei Cinque Archi è una strada che scende nel verde da Velletri verso la costa tirrenica. Si chiama così perché, a un certo punto, passa sotto un vecchio ponte rossastro che ha cinque archi. A pochi chilometri dal paese sorge un tempio sikh, uno dei più frequentati della regione. È un unico stanzone dalle luci soffuse, pieno di tappeti e stoffe rosse, gialle, arancioni. C’è un altarino, e sulle pareti sono appese immagini di Guru Gobing, una delle massime autorità religiose del passato. Benché difficile da afferrare nella sua essenza da una prospettiva europea, il sikhismo è un credo religioso sincretico, pervaso di profonda tolleranza; e le quattro mura di questo tempio paiono comunicarlo.

Di domenica il tempio si riempie di centinaia di punjabi. Vengono dal nord dell’India, ai confini con il Pakistan. Sono soprattutto uomini, ma non mancano le donne e i bambini, che scorrazzano tra gli alberi. Pregano per ore e a fine giornata cucinano insieme. Sono i braccianti della zona, i nuovi lavoratori della terra. Secondo calcoli Approssimativi dell’ambasciata, gli indiani presenti in Italia (non solo i sikh) sono 150.000, di cui circa 70.000 – stando alle norme della Bossi-Fini – “clandestini”. Almeno ventimila si concentrano nel Lazio meridionale, in un triangolo i cui vertici sono costituiti dalla stessa Velletri, Anzio e Formia.

Al tempio ho conosciuto Singh, 35 anni, bracciante. Vive in Italia da tre lustri, ma parla ancora poco l’italiano. Lo capisce, ma quando è il momento di parlare fa fatica a esprimersi. Così è anche per tutti gli altri: non imparano l’italiano, perché in fondo guardano all’Italia come a un posto in cui lavorare temporaneamente, mandando i soldi a casa, non a un paese in cui integrarsi. Ma poi il lavoro dei campi diventa sempre più gravoso, l’incomprensione della lingua una muraglia, e il tempo si dilata. Il “temporaneo” è un concetto labile, si volge in anni sempre uguali a se stessi, fatti di sudore ed esclusione: i soldi da mandare a casa non sono mai sufficienti, i ricongiungimenti famigliari sono più l’eccezione che la regola, e nel frattempo la vita corre via. Ti ritrovi a trenta-quaranta anni invischiato in un limbo. Sono in pochi a tirarsi fuori da questo diktat del tempo, e Singh non pare essere uno di loro.

Singh ha lavorato per oltre dieci anni per un piccolo proprietario della zona. Sembrava “buono”. Gli dava anche la busta paga: apparentemente il suo era un contratto regolare, e ciò gli ha permesso in tutti questi anni di rimanere in Italia, ma i soldi che poi riceveva erano molto meno di quelli segnati in busta. Tuttavia Singh non si è ribellato: in fondo, oltre a lavorare faceva anche da guardiano e quel padrone che pareva buono gli aveva dato anche un piccolo alloggio senza fargli pagare le spese. È andata così fino a quando Singh non ha deciso di far venire in Italia la moglie e i loro due bambini. Al padrone l’idea non è piaciuta per niente: quando per anni uno è considerato semplice forza lavoro è poi difficile, da un momento all’altro, percepirlo come persona, con i suoi diritti e i suoi bisogni. Così il padrone che pareva buono è diventato “cattivo”. Appena la moglie e i bambini piccoli sono arrivati, ha staccato luce e acqua dal piccolo alloggio, considerando il ricongiungimento familiare del suo bracciante una piccola invasione. La guerra psicologica è durata poco. Nonostante i soldi spesi per il viaggio, la moglie non ha retto, specie quando i bambini si sono ammalati. Così è tornata nel Punjab, e Singh è rimasto qui. Poco dopo il padrone che pareva buono è morto. L’azienda di famiglia è passata nelle mani del figlio e la prima cosa che ha fatto è stata quella di licenziare Singh, negandogli – insieme alla busta paga fittizia – il permesso di soggiorno in Italia.

Dopo anni e anni di duro lavoro, Singh si è reso conto di non avere in mano niente: tornare indietro avrebbe voluto dire fare la fame e, soprattutto, ammettere a se stesso che il proprio progetto migratorio era andato in pezzi. Allora ne è venuto fuori come tutti. Un anno fa ha pagato 5.000 euro (!) a un altro piccolo imprenditore della zona perché formalmente lo assumesse, permettendogli di rinnovare il permesso di soggiorno. Per lui non ha mai lavorato. Lavora al nero, come tutti i braccianti stranieri, per padroni e padroncini della zona. Anche qui ci sono i caporali, italiani e stranieri: raccoglie frutta, ortaggi, pomodori... per 3 euro all’ora. Questo quando gli va bene, perché poi ci sono anche gli imprenditori che pagano meno, e le lunghe giornate in cui non si lavora. Facendo un calcolo sommario, Singh sostiene di guadagnare 500 euro al mese. 200 li spende per l’affitto (ora vive in due stanze con altri due connazionali), 200 li manda alla moglie e ai figli tornati nel Punjab, e con 100 riesce a vivere. Campare con 100 euro al mese, in Italia, gli sembra la più naturale delle cose. Quando gli ho chiesto perché non se ne va in Germania o in Inghilterra, dove sarebbe pagato sicuramente meglio, mi ha risposto che non ce la fa a fare un salto nel buio. Non se la sente: “Se io vado là, e per due mesi non lavoro, cosa mando a casa? Come vivono loro?”. Allora gli ho chiesto come fa ad andare avanti, come fa a reggere tutto questo. “Prego – mi ha risposto – vado al tempio”. Singh prega tutti i giorni, per tre, quattro ore.

Ogni pomeriggio, quando ha finito di lavorare nei campi, risale a piedi o in bicicletta via dei Cinque Archi e va al tempio. E lì, nel silenzio delle luci soffuse, i lunghi capelli raccolti nel solito turbante giallo, le mani intrecciate sotto il mento dalla barba fluente, chiude gli occhi e ritrova la pace. La violenza, il sopruso, l’inganno, l’ingiustizia melmosa scompaiono. Poi torna a casa, mangia qualcosa e va dormire presto. Ancora più che nella provincia di Roma, gli indiani e i punjabi del Lazio si concentrano nella provincia di Latina, lungo la Pontina. Giovanni Gioia, segretario generale della Flai Cgil latinense, dice: “Nel Punjab guadagnano un euro l’ora. Per cui pensano che qui essere pagati 3 euro sia un affare. Quando gli dici che per contratto hanno diritto a 7 euro l’ora, ti credono un marziano”.

Tra Sabaudia e Terracina le borgate agricole sono ormai indiane. Gli indiani vivono a decine nei casolari diroccati e lavorano una delle terre più fertili d’Italia. “Ci sono solo loro ormai, i rumeni si sono spostati nell’edilizia”. Per mettere in piedi il benché minimo lavoro sindacale occorre rompere la cappa del limbo. Ma farlo “da italiani” è impossibile. Servono mediatori, costruttori di ponti come Nanda, un indiano di Delhi che ha una rosticceria a Latina e lavora con la Flai. Nanda è una figura autorevole, riconosciuta tra i braccianti. È il punto di riferimento per la risoluzione di ogni problema, ed è – allo stesso tempo – il veicolo attraverso cui passano le informazioni sui diritti, sul miglioramento delle proprie condizioni. Quando a fine aprile c’è stata a Castelvolturno la prima assemblea nazionale dei lavoratori migranti della terra, il pullman del Lazio è stato riempito quasi interamente dagli indiani e dai sikh della Pontina richiamati da lui.

Su quel pullman c’ero anch’io. Accanto a me era seduto un ragazzino: avrà avuto diciannove, venti anni, ma ne dimostrava di meno. Sul suo videofonino (che aveva recuperato da un parente) aveva scaricato un’infinità di video di Bollywood: perlopiù spezzoni melodrammatici in cui giovani uomini e giovani donne cantano e ballano corteggiandosi. Raccolti in cinque intorno a quello schermo di pochi pollici osservavano le immagini con attenzione, assorti e felici. A un certo punto si sono messi a cantare in coro una canzone di Udit Narayan, la star che in quel momento si agitava sullo schermo. Nasha yeh pyaar ka nasha hai si chiamava la canzone e, sebbene non conosca una sola parola di hindi, ci ho messo pochi secondi per capire che era la traduzione fedele (non solo nella melodia, ma anche nell’assonanza delle parole) di L’italiano di Toto Cutugno. Loro erano convinti che fosse una canzone di Bollywood, così come una bicicletta ha due ruote e un’auto quattro. E nulla ha scalfito le loro certezze, men che meno la mia strenua difesa della paternità di Toto Cutugno su quelle note. Sapere che un gruppo di braccianti indiani impazzisce, ignaro, per una cover di L’italiano è stata una delle più grandi lezioni sulla globalizzazione dei processi culturali. Chi osteggia il meticciato (delle società e delle culture) è semplicemente fuori dal mondo. Se non ci credete, cercate Nasha yeh pyaar ka nasha hai su You Tube.