Se nell’epoca del mercato editoriale più sfrenato, condizionato dai ritmi dettati da Amazon e simili, il passaparola tra i lettori ha ancora un senso, la vittoria alla 74ma edizione del Premio Strega di Sandro Veronesi con Il colibrì (La nave di Teseo) potrebbe definirsi annunciata, pur consapevoli che il riconoscimento letterario più ambito in Italia non viene deciso dai lettori comuni, ma dagli oltre 400 “Amici della domenica” di Casa Bellonci, con pacchetti di voti “democratizzati” da Tullio De Mauro negli ultimi anni prima della sua scomparsa.

La qualità della scrittura dell’ultimo lavoro di Veronesi si intuiva già nell’anticipazione al primo capitolo pubblicato lo scorso inverno su “La Lettura” del Corriere della Sera, confermata per l’appunto dalle numerose copie vendute dopo poche settimane l’uscita del libro. Il colibrì è il soprannome dato al protagonista, Marco Carrera, di cui si ripercorre l’esistenza attraverso un meccanismo narrativo già efficacemente sperimentato dall’autore, si pensi a La forza del passato, Premio Viareggio e Premio Campiello nel 2000, o a Caos Calmo, che sempre La nave di Teseo ha proposto in una nuova edizione nel 2016, giusto dieci anni dopo la prima affermazione di Veronesi allo Strega con questo titolo.

 

 

Per lo scrittore si tratta dunque di un bis, non proprio una consuetudine, dato che l’unico ad aver ottenuto un risultato simile era stato Paolo Volponi, nel 1965 con “La macchina mondiale”, e nel 1991 con La strada per Roma. E forse non è un caso che i due nomi si ritrovino insieme, dato che il loro rispettivo e comunque differente interesse per temi di argomento politico e sociale sembra avvicinarli, in epoche diverse, con stili certo tra loro ben distinguibili. Se infatti Le mosche del capitale è il romanzo maggiormente noto di Volponi, un grande affresco novecentesco sul mondo dell’industria, della finanza e del potere italiani, nel 2018 Veronesi scrive di getto, ancora per La nave di Teseo una sorta di instant-book, Cani d’estate che ricostruisce le sorti delle navi Aquarius e Diciotti, in una fase in cui l’allora ministro dell’Interno maramaldeggiava inneggiando alla chiusura dei porti quale soluzione unica e inconfutabile per la questione migranti, sfoderando un linguaggio xenofobo e razzista al quale tentano di opporsi i latrati di una mobilitazione collettiva in difesa dei fondamentali diritti dell’uomo, in nome di una politica fatta di accoglienza e solidarietà.

Il colibrì Marco Carrera è invece un altro uomo, l’uomo borghese della Roma benestante, quartiere Trieste, convinto di aver vissuto un’infanzia felice, con una coppia di genitori apparentemente ideali, e di aver a sua volta costruito un nucleo familiare sereno. Ma le sorprese della vita appaiono all’improvviso, possono materializzarsi nelle confessioni a rischio di segreto professionale da parte dell’analista della moglie, inizio di un progressivo sgretolarsi di alcune certezze che, come nelle prove d’autore di Veronesi citate, rincorrono il futuro rivisitando il proprio passato, alternato nei capitoli con la consueta abilità narrativa alla quale Sandro Veronesi ci ha da oltre vent’anni abituati. Il suo Marco Carrera riuscirà a non precipitare, contrastando le avversità fino a una nuova nascita, di cui più non diciamo per rispetto dell’intreccio della trama.

Un Premio Strega meritato, dunque, per un libro che ancora una volta conferma il vincitore come uno tra i migliori scrittori italiani. Scorrendo le pagine degli altri finalisti dell’anomala “sestina” di questa 74ma edizione, da Carofiglio a Parrella (entrambi Einaudi), dal Ragazzo italiano Gian Arturo Ferrari (Feltrinelli) a Daniele Mencarelli (Mondadori), sino all’eccentrico e divertito Jonhatan Bazzi, mattatore della serata al Ninfeo di Villa Giulia, meno affollata del solito per non assembrarsi troppo, un tratto comune si può ritrovare in una evidente, forse a tratti eccessiva, tendenza all’autobiografismo. Ma tant’è.