Nel 1965 lo scrittore Giovanni Arpino - che con merito minimum fax sta ripubblicando - scrisse una lettera a Dario Fo, di cui riproduciamo un estratto per gentile concessione dell’editore (dal volume da poco in libreria Lettere scontrose). In quegli anni Arpino teneva una rubrica di lettere, appunto “scontrose”, sul settimanale Tempo. Ma in questa, indirizzata al futuro premio Nobel per la Letteratura, colpisce la lettura critica esatta, acuta e in fondo profetica, della relazione non separabile tra testo e spettacolo in Dario Fo. L’artista agli occhi di Arpino era autore di un proprio teatro rivoluzionario, narratore e interprete di storie che andavano trasformando la drammaturgia italiana. d.o.

 

Caro Dario Fo, 

se volessimo tirar giù un po’ di conti, le cifre che ci metti sott’occhio farebbero trasecolare i tradizionali becchini del teatro: in sette anni, con sette spettacoli – da Gli arcangeli non giocano a flipper a Chi ruba un piede è fortunato in amore, da Settimo: ruba un po’ meno a La colpa è sempre del diavolo – ti sei fatto applaudire da oltre un milione di persone, hai recitato per oltre mille repliche a Milano, hai avuto 251 debutti in altre città. Inoltre la tua compagnia non ha mai avuto bisogno di ricorrere a sovvenzioni governative e tu hai saputo difenderti persino dalla televisione, sbattendo la porta in faccia alla famosa Canzonissima... Ti offrono un milione in premio? Tu ringrazi e generosamente lo «giri» come sovvenzione a non so più quale ente o istituto del teatro. Ti chiamano come regista per uno spettacolino di canzoni dialettali? Tu accetti, con l’entusiasmo di un goliardo alla sua prima prova.

Per una zona vasta di pubblico, soprattutto lombardo, tu sei, insieme, il nuovo Fregoli, il nuovo Petrolini, il nuovo Totò, tutti e tre conditi con un pizzico di Brecht. Per una certa critica tu rappresenti un caso unico del nostro teatro, tale da costringere gli esperti a usare termini grossi.

Dicono, un po’ tutti: «Si sa, ormai, cos’è il teatro di Fo: o meglio quell’insieme di scenette e canzoni, inframmezzati da lazzi e da invenzioni mimiche che l’attore ci presenta ogni anno sotto la formula della commedia musicale. Si tratta in genere di contaminazioni tra buffoneria e satira, prive d’eccessive preoccupazioni di logica e di conseguenzialità, che vogliono tuttavia alla fine dimostrare qualche cosa, esprimere il loro bravo messaggio moralistico-sociale per non dire ideologico-politico...»

Più o meno hanno cercato di incasellarti, catalogarti, non vogliono più riconoscerti come «sorpresa» ma solo rispettarti ancora e molto come «fenomeno». Dicono: che bravo quel Fo, peccato che mitragli le parole, peccato che i testi non siano all’altezza delle sue doti mimiche. Dicono: che coppia, la Fo-Rame, peccato che le loro commedie siano così ingarbugliate e le trovate sprizzino talmente forte da sotterrarsi l’una con l’altra...

Hanno ragione? Davvero i tuoi stessi testi ti tiranneggiano, ti impacciano?

È molto difficile infilare questo discorso senza rischiare solenni sbandate. Intanto una cosa è certa: Dario Fo i testi se li fabbrica a sua misura perché non esiste al mondo un autore in grado di fornirglieli. E poi c’è il lato di Fo suggestionato dalla storia, da tutti i duchi, i monaci, i servi, le streghe, le guardie, i cortigiani che si incontrano nelle pagine del Verri, del Corio, del Giulini. E ancora c’è il Fo mimo che, dato un testo, te lo rigira da ogni parte, roteandolo come una clava, un caleidoscopio, una mistura chimica in perpetua ebollizione. E in ultimo c’è il Fo dall’enorme fiuto teatrale, che sa far scattare una scena, una gag, sfruttando tutto l’armamentario dell’esperienza spettacolare, dalla commedia dell’arte al varietà, alla sequenza cinematografica, ora ubbidendo al gusto del pubblico e ora travolgendolo per tirarselo appresso.

È difficile parlare di te, caro Fo. Non appartieni alle ghenghe degli attori, non vivi guardandoti nello specchio. Non hai, o quasi, difetti! Conoscendoti come persona molto seria, molto perbene, molto preparata, innamoratissima dei libri, del lavoro, civilmente partecipe di questo mondo, un amico non prevede in te, a volte, il risvolto eccentrico del Fo che fabbrica lazzi, scatta come una marionetta, smaschera i difetti non solo dei cattivi e dei potenti ma di chi è buono e tonto.

Secondo me, ci siamo tutti troppo facilmente abituati a vedere, applaudire, giudicare Fo. Ci siamo «accontentati» di Fo con una sufficienza assai criticabile. Nessun altro teatro, in America o in Europa, nessun altro comico di palcoscenico, ha la verve di Fo. Tutte le ricerche delle avanguardie non sono approdate che a stanchissimi atti unici, povere cose senza effetto, lagne per intellettuali di paese, residui di programmazioni astratte.

Com’è possibile, mi domando, separare Fo attore da quanto Fo inventa e scrive? Riusciamo a immaginare Fo domato dalle pastoie di un testo non suo? Certo, Fo potrebbe benissimo essere un becchino del teatro elisabettiano, un personaggio di Pirandello, un presentatore di avanspettacolo, un congiurato rinascimentale, ma in tutte queste parti Fo esprimerebbe solamente un quinto di se stesso, non riuscirebbe a sfogare l’ironia, la fredda rabbia, la sete di giustizia, il pessimismo, la buffonata proliferante che hanno bisogno di uscire da Fo, farsi vive e slogate e furenti.

Per fermare Fo, per vederlo acquietato e annacquato in un testo tradizionale, di riposo, bisognerebbe che il mondo fosse diverso, e cioè giusto, e cioè pacifico, bisognerebbe che questo mondo d’oggi, grazie anche ai suoi aspetti tragici, non risultasse macabro e ridicolo insieme, un manicomio di gesti inutili e violenti.

Ormai l’hai deciso: sarà la storia la sorgente dei tuoi spettacoli, saranno le vicende di certi Sforza, di certi Visconti, di altri signorotti e imperatori e duchi, saranno le congiure e i soprusi, le pazzie e gli omicidi e le situazioni paradossali di secoli fa a consegnarti il filo conduttore dei tuoi canovacci. 

Burattino senza fili, scompigli le tue trame perché non ti sembrano mai abbastanza folte, mai sufficientemente stimolanti e allusive, mai troppo ricche di collusioni con la nostra età, e di ammonimenti amari e farseschi. 

Alle beghe del teatro tu, Fo, hai risposto a modo tuo, lavorando e facendo ridere, secondo gli obblighi del tuo mestiere: ed è un peccato che non si possa venire e sentirti addirittura in piazza, tra venditori di frutta e gente scamiciata. È un peccato che tu, Fo, sia costretto a recitare dentro uno spazio convenzionale, e non all’aperto, per le strade e i balconi e i vicoli e i portici. È strutturalmente una condanna che la tua «baia alla storia» debba covare tra i velluti, davanti a file ben serrate di poltrone, e non possa scatenarsi tra scenari autentici.

Non puoi chiedere aiuto a nessuno, e questo, prima che un limite, è una condizione che tu hai accettata come necessaria. Devi tirarti fuori il cibo dalle viscere come il pellicano. Devi registrare il tuo testo cammin facendo, limandolo secondo le accoglienze del pubblico, sveltendo il ritmo in ubbidienza alle necessità del palcoscenico.

Vado sognando una tua commedia musicale: la storia di un duca meneghino che lascia morir di fame i suoi mezzadri e intanto litiga e si trastulla coi giocolieri della sua corte; che spregia ricevere i messi imperiali, anche se carichi d’oro, e si abbandona a gite in barca, ancora minacciando, blandendo, strapazzando la squadra dei giocolieri...

Alla tua concezione della Storia come Attualità, questa vicenda potrebbe ispirare sacri furori.