Il 28 maggio 1974 a Brescia è prevista una manifestazione unitaria contro il terrorismo neofascista, indetta dai sindacati e dal Comitato antifascista. Il clima è freddo e piovoso e i manifestanti non sono moltissimi a causa della pioggia. Alle ore 10.12 Franco Castrezzati, segretario dei metalmeccanici della Cisl bresciana, sta parlando dal palco a nome della Federazione unitaria. La sua voce viene rotta, improvvisamente, dall’esplosione di una bomba che causa la morte di otto persone. 

“Una bomba con un chilo di tritolo è scoppiata questa mattina fra la folla che partecipava ad una manifestazione contro la violenza e il terrorismo neofascista in piazza della Loggia, nel cuore di Brescia - scriveva il Corriere della Sera il 29 maggio 1974 - Un massacro, sei morti oltre novanta feriti, due dei quali in gravi condizioni (ndr Luigi Pinto morirà qualche giorno dopo, il 1 giugno, Vittorio Zambarda il 16): l’attentato più grave dal giorno della strage di piazza Fontana a Milano; una sfida sfrontata alle istituzioni democratiche, un’azione abietta e crudele diretta a seminare morte e dolore, indiscriminatamente, fra la massa pacifica della popolazione, fra i lavoratori, fra gli studenti. È stato - non vi possono essere dubbi - un attentato di marca nera, giunto al termine di una lunga serie di violenze, di provocazioni, soprattutto di attacchi dinamitardi, che da oltre due anni hanno fatto di Brescia il punto più caldo e la chiave di volta del terrore fascista”.

“Nelle vie adiacenti - riportava il Giornale di Brescia - era un continuo andirivieni di autoambulanze e di vetture delle organizzazioni sindacali dotate di altoparlanti che cercavano di dare un contributo al ristabilimento di un minimo di ordine e invitando i dimostranti a trasferirsi in Piazza Vittoria dove si sarebbe dovuto mettere a punto un piano di risposta democratica alla mostruosa aggressione. Gli altoparlanti della federazione sindacale annunciavano il prolungamento dello sciopero fino alla mezzanotte di oggi e per domani l’occupazione di tutte le fabbriche di città e provincia alla folla di Piazza della Loggia. Ammirevole il senso di responsabilità dei sindacalisti, tra i quali molti giovani. Energicamente provvedono a riordinare le fila, anche con la collaborazione dei vigili urbani, dei lavoratori e degli studenti”.

Ricorderà anni dopo Claudio Sabattini, nel 1974 segretario generale della Fiom di Brescia: “Le organizzazioni sindacali subito dopo lo scoppio, decidono di fronte ad una fase di difficoltà e di confusione, anche per reggere la situazione, di proclamare non solo lo sciopero generale per tutta la giornata e per il giorno dopo, ma di proclamare le occupazioni delle fabbriche. La decisione di proclamazione dell’occupazione delle fabbriche non è stata una decisione, per così dire, offensiva; (…) nella sera che precede l’occupazione delle fabbriche, tutto il quadro dirigente sindacale si interrogava sul come avrebbe risposto la classe operaia il giorno dopo; (…) il giorno dopo, quando si aprono le assemblee di fabbrica e si fanno le assemblee, si può verificare che vi è una sensibilità e una risposta molto decisa e molto dura da parte della classe operaia, ma non nel senso di proposte o iniziative particolarmente esasperate (…)  l’orientamento è che occorre tenere occupata piazza Loggia per tutta settimana: cioè uscire dalle fabbriche e collegarsi alla città” (il servizio d’ordine del sindacato proseguirà il presidio della piazza fino al pomeriggio del 1 giugno).

La paternità della strage viene rivendicata da Ordine Nero e da Anno Zero - Ordine Nuovo. La risposta del Paese è impressionante: il giorno dopo a Milano oltre 200 mila persone confluiscono in piazza del Duomo dove a nome della Federazione unitaria parla Agostino Marianetti; a Napoli, alla presenza di circa 100 mila manifestanti, a parlare è Franco Marini; a Bologna in piazza Maggiore parla Bruno Trentin, a Torino Giorgio Benvenuto, a Roma - in Piazza San Giovanni dove confluiscono oltre 300 mila persone - intervengono Luciano Lama, Raffaele Vanni e Luigi Macario. Nell’aprire la manifestazione in quella Piazza San Giovanni che dal rapimento di Aldo Moro alla manifestazione sulla scala mobile del 24 marzo 1984 sarà per lui luogo dei grandi appuntamenti, delle grandi sfide, dirà Luciano Lama: “Da Piazza Fontana a Brescia una mente criminale, una mano sola ha operato per colpire a morte lo stato democratico per spegnere nella coscienza dei cittadini l’amore per la libertà; ma compagni e amici dei partiti democratici, questo disegno che vuole disgregare il paese non riesce: i grandi valori della Resistenza non sono senza difensori. Voi li vedete qui oggi, questi difensori riuniti come in altre cento piazze d’Italia, decisi a difendere le istituzioni, a promuovere il progresso sociale e civile”.

I funerali di Stato si tengono il 31 maggio. Terminata la celebrazione della messa, Franco Castrezzati riprende il discorso interrotto dall’esplosione della bomba il 28 maggio: “Mi è difficile riprendere la parola in questa piazza dove il mio discorso nella manifestazione di martedì venne interrotto tragicamente dalla violenza omicida dei fascisti. La scena di orrore di quel giorno è davanti ai miei occhi insieme allo sdegno e la rabbia di una folla che aveva immediatamente avvertito la sfida che i fascisti intendevano lanciare con il loro gesto criminale alle istituzioni democratiche e al movimento operaio. Questo disegno è stato sconfitto dalla reazione unitaria testimoniata dalla presenza popolare sul luogo della strage in tutti questi giorni, dalle assemblee di fabbrica dei lavoratori bresciani, chiamati a raccolta dai sindacati, dai partiti che hanno portato all’unanime condanna e al definitivo isolamento nella coscienza civile del terrorismo eversivo”.

Per la Federazione unitaria parla di nuovo Luciano Lama (il testo del suo discorso sarà preventivamente visionato dal presidente Leone): “L’Italia dei lavoratori - afferma il segretario generale della Cgil - l’Italia democratica è presente oggi qui a Brescia per dare il saluto estremo a suoi lavoratori e dirigenti sindacali, tre donne e tre uomini uccisi martedì in questa stessa piazza, dalla furia omicida di criminali fascisti. Questa strage di innocenti, di cittadini onesti, esemplari, costituisce l’ultimo anello di una catena che ha avuto inizio a Piazza Fontana nel ‘69 e che in altre regioni d’Italia e in questa stessa provincia si è via via snodata in attentati, in fatti di sangue, in insulti allo spirito democratico e alla serenità del nostro popolo. Questi nostri fratelli sono stati uccisi perché protestavano contro il fascismo, perché volevano che a trent’anni dalla liberazione la vita democratica potesse svolgersi in Italia sulla base di principi costituzionali: difendevano la nostra libertà, la libertà degli italiani” (agli applausi per gli interventi di Lama e del socialista Gianni Savoldi seguono i fischi della piazza e la contestazione: Giovanni Leone e Mariano Rumor sono i più bersagliati, ma gli insulti investono tutti i principali esponenti della Dc).

“Il 28 maggio 1974, alle ore 10.12, ho smesso di essere quel che ero e ho cominciato a essere quello che sarei stato per il resto della mia vita: un sopravvissuto”, raccontava lo scorso anno Redento Peroni, ferito nella strage, a Walter Veltroni: “Io prendevo 100 mila lire al mese, ne pagavo 27 mila di mutuo. Perdere un giorno di salario era un sacrificio grosso. Quel giorno non lo facevo per i miei diritti, ma per la libertà di tutti. Scioperavo per gli altri, non per me stesso. Quella mattina un collega mi indica un fascista che era in piazza. Strano, penso. Comincio a seguirlo. E nel frattempo guardavo nella fontana, nelle griglie a terra, se c’era qualcosa. Poi l’ho perso di vista. Ero sotto la pioggia, vicino al cestino. Poi un uomo, in dialetto, mi ha detto 'ragazzo vieni sotto i portici, non ti fradiciare'. Mi sono spostato (…) Quando è scoppiata la bomba il corpo dell’uomo che mi aveva fatto spostare, Bartolomeo Talenti, e quello di Euplio Natali mi hanno fatto da schermo, salvandomi. (…) Ho vissuto decenni sentendomi in colpa per essere rimasto vivo in mezzo a quel massacro. Ho aspettato 43 anni di sapere la verità, non per vendicarmi. Io sono sempre stato disposto a perdonare, ma volevo volti, nomi. Volevo sapere chi e perché aveva messo quella bomba che ha ridotto a brandelli e ucciso otto persone, ferito più di cento giovani, donne, operai. Adesso finalmente è fatta giustizia anche se tutta la verità forse non la sapremo mai”.

In questi quarantasei anni sono stati celebrati tre processi.  L’ultimo, terminato nel 2017, ha condannato per strage il dirigente di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi, come organizzatore dell’eccidio, e il militante (e informatore del Sid) Maurizio Tramonte, per concorso. Non sono stati identificati gli esecutori materiali e non c’è stata nessuna condanna per i depistaggi, pur ricostruiti.

“Il tempo è diverso per i sopravvissuti - scrive Benedetta Tobagi, una donna che al terrorismo ha pagato, piccolissima, un prezzo altissimo - Il presente è sempre un dopo. Tu vivi ancora - lui, lei, loro no. Dopo nel fondo più oscuro, infiniti sensi di colpa. Colpa di esistere ... Siamo testimoni. Siamo legati tra noi e dalla storia, dal nesso che connette ogni strage impunita agli omicidi brigatisti, ma ancor più dal mistero di una coincidenza che bussa insistente alla porta”.