Sharon Lavigne è un’attivista statunitense. Il suo volto non è conosciuto qui da noi, ma le sue battaglie hanno fatto il giro del mondo. Ha fondato la Rise St. James, un’organizzazione nata per contrastare l’espansione dell’industria petrolchimica nella cosiddetta Cancer alley (vicolo del Cancro) della Louisiana, una delle aree più inquinate degli Stati Uniti, dove vive.

Ha guidato una campagna che ha fermato la costruzione di un impianto da 1,25 miliardi di dollari della cinese Wanhua Chemical Group. Ha portato avanti una battaglia contro la taiwanese Formosa Plastics e il suo progetto di espansione industriale da 9,4 miliardi di dollari.

E ancora: ha organizzato marce, coinvolto cittadini, fatto assemblee pubbliche, messo a punto campagne porta a porta. Lei, un’afroamericana di 75 anni, insegnante in pensione, è il classico esempio di mobilitazione dal basso che funziona e che ha successo.

Per questo ha ricevuto il Goldman Environmental Prize nel 2021, una sorta di premio Nobel dell’ambiente, nel 2022 la Laetare Medal, la più alta onorificenza per i cattolici americani, nel 2024 è stata inserita tra le Time100, le persone più influenti al mondo.

Collettiva l’ha incontrata nella sua redazione a Roma, in occasione del Festival dell’ecologia integrale Relazioni inseparabili che si è tenuto a Trevignano Romano, tre giorni di alta formazione gratuita dedicati alle nuove generazioni di attivisti in Italia organizzati da Gea.

Sharon è in Italia per far conoscere la cultura, i linguaggi, le pratiche della giustizia ecologica, ambientale e sociale, in vista della Cop30, la Conferenza delle parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Belem, in Brasile, a novembre.

“Se sono dalla parte giusta, gli attivisti devono continuare a combattere e a costruire potere”, ha detto ai nostri microfoni: “Il potere è nelle mani delle persone, il potere per superare qualsiasi cosa”.