“Devi essere deliberatamente cieco - sfortunatamente, un disturbo abbastanza comune tra i politici - per non vedere che il riscaldamento globale ha smesso di essere una minaccia che ci raggiungerà solo tra alcuni anni. È la nostra realtà attuale, e se gli scienziati del clima, i cui avvertimenti sono stati ampiamente confermati, hanno ragione, la situazione peggiorerà”. Questo scrive il premio Nobel per l’economia Paul Krugman commentando gli ostacoli che la destra americana sta frapponendo a qualunque, seppur timida, azione per limitare il riscaldamento globale.

In questa estate rovente sul terreno politico, l’emergenza climatica si sta già imponendo all’attenzione delle persone che devono affrontare l’aumento delle temperature e i loro effetti: dagli incendi alla siccità, dallo scioglimento dei ghiacciai fino alle conseguenze economiche che questo comporta in settori importanti, a partire dall’agricoltura. Si sta imponendo cioè nelle condizioni delle persone, eccetto purtroppo che nel dibattito pubblico, dove il tema è trattato come cronaca e non come la più grande sfida che abbiamo di fronte oggi come umanità. Ieri in occasione del Dialogo sul clima di Petersberg, che riunisce a Berlino i rappresentanti di circa 40 Paesi, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha parlato di un’unica scelta: azione collettiva o suicidio collettivo.

Il Centro comune di ricerca della Commissione europea nel rapporto sulla “Siccità in Europa - luglio 2022” pubblicato nei giorni scorsi ha reso noto che oltre la metà del territorio europeo è “attualmente esposta a livelli di attenzione di siccità (44% di Ue più Regno Unito) e di allerta (9% di Ue più Regno Unito) e che lo stress idrico e termico sta spingendo i raccolti al ribasso rispetto a una prospettiva già negativa per i cereali e altre colture. Francia, Romania, Spagna, Portogallo e Italia dovranno probabilmente far fronte a questa ridotta resa del raccolto”. Questo senza contare l’impatto in Europa e nel resto del mondo del conflitto in Ucraina ancora in corso anche sugli approvvigionamenti di grano.

Il quadro in cui ci muoviamo parte da un assunto molto chiaro: non si tratta di eventi eccezionali, ma questo è il nostro presente e il nostro futuro e quindi dobbiamo mettere in campo tutti gli sforzi per evitare di peggiorare la situazione, nella consapevolezza che questo presente non è reversibile, cioè non si torna indietro come ci ricordano inascoltati gli scienziati del Panel intergovernativo dell’Onu e la stragrande maggioranza degli scienziati del mondo.

È evidente che ci troviamo in mezzo a due emergenze in contemporanea: da un lato dobbiamo ridurre la dipendenza dalle fonti fossili molto rapidamente, salvaguardando economia e lavoro, dall’altro dobbiamo affrontare l’emergenza energetica (e l’impatto ambientale di cui si parla pochissimo) che si è determinata a causa dell’invasione russa in Ucraina e del conflitto che ne è scaturito. 

Vale a dire che qualunque misura metteremo in campo deve essere temporanea e limitata, per non pregiudicare gli obiettivi climatici che in Europa sono definiti dal Green Deal, e deve essere accompagnata da un’accelerazione su rinnovabili ed efficientamento energetico. Da questo punto di vista non è una buona notizia la decisione della Commissione, sancita dal Parlamento il 6 luglio scorso, di includere nella tassonomia europea gas e nucleare. Ricordo che la tassonomia europea è una sorta di lista di investimenti ritenuti sostenibili in Europa sul piano ambientale, necessaria per chiarire agli investitori privati ciò che è verde e ciò che non lo è. La decisione della Commissione e il voto del Parlamento sono una cattiva notizia per l’Europa e per l’ambiente.

Per l’Europa perché ha dimostrato, dopo la nettezza delle scelte contenute nel Green Deal e nel programma straordinario Next Generation Eu, di essersi smarrita tra i chiari compromessi politici che hanno determinato questa decisione, evidenziando la debolezza dell’attuale assetto delle istituzioni europee (che fondano le decisioni sull’accordo intergovernativo) e rendendo palese due contraddizioni: da un lato gli obiettivi stabiliti Green Deal (riduzione del 55 per cento delle emissioni climalteranti al 2030 e neutralità climatica al 2050) rimangono obbligatori per gli Stati membri e condizione necessaria per accedere alle risorse europee, dall’altro gli investimenti privati futuri potranno parzialmente divaricarsi da questi stessi obiettivi. È una cattiva notizia per l’ambiente perché ovviamente potrebbe rappresentare un rallentamento della strategia di sviluppo sostenibile europea, che ha rappresentato un primo passo per la ridefinizione del modello di sviluppo.

Nonostante tutto ciò, il nostro Paese e l’Europa debbono perseguire con determinazione l’obiettivo della riconversione ecologica e della decarbonizzazione dell’economia. La prima ragione è naturalmente legata alla tutela dell’ambiente, la seconda riguarda il ruolo di leadership che si ha dal punto di vista politico, economico e industriale. La transizione ecologica rappresenta un’opportunità di cambiamento nelle alleanze industriali e commerciali e rivoluzionerà gli equilibri geopolitici internazionali, ciò vale soprattutto per le economie manifatturiere a partire dall’Italia. L’Europa ha tutte le condizioni per poter essere leader e riuscire a imporre i propri standard green.

Ciò significa anche individuare tutti gli strumenti che consentano di coniugare la trasformazione dei sistemi industriali ed economici con la tutela del lavoro e la creazione di nuova occupazione. Infine affrontare questa transizione significa anche contrastare le disuguaglianze vecchie e nuove per la stretta interazione della dimensione ambientale con l’economia e con la sostenibilità sociale. In una fase della storia dove l’indice di sviluppo umano per la prima volta da 30 anni è regredito anche per l’impatto della pandemia a livello globale, è necessario ripensare e rivedere i nostri modelli economici e sociali. 

Tutto ciò è tanto più vero se guardiamo al nostro Paese dove scontiamo arretratezze, divari e inerzie ultradecennali. Per questo ci dobbiamo dotare di un’agenda verde e di un piano per la giusta transizione che scandisca concretamente obiettivi stringenti e risorse che siano misurabili dalle persone e dai lavoratori. Indugiare nelle nostre contraddizioni non aiuterà il lavoro e non aiuterà l’ambiente. È anche una grande sfida che ci riguarda direttamente come sindacato e che ci impegnerà intensamente nei prossimi anni. Abbiamo la volontà e le idee per affrontarla, consapevoli che non sarà facile. Ma determinazione, lungimiranza e coraggio sono gli strumenti che ci hanno sempre permesso di affrontare le fasi più complesse della nostra storia, tutelando il lavoro e l’interesse generale. 

Gianna Fracassi, vicesegretaria generale Cgil