Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n.1-2017 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

Il welfare state italiano ha sempre privilegiato i trasferimenti monetari rispetto ai servizi, specialmente nell’ambito delle risposte ai bisogni socio-assistenziali o alle problematiche del lavoro. Nei “trenta anni gloriosi”, l’intervento pubblico a fini sociali, nell’ambito dei servizi, ha continuato a fornire risposte “istituzionalizzanti”, dai minori agli anziani poveri o malati ai malati mentali: orfanotrofi, istituti per minori, ospizi e manicomi. Solo nel periodo successivo, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, ha cominciato a manifestarsi, sia pure timidamente, anche nel nostro Paese una “moderna” cultura dei servizi, raccordati con il territorio e volti alla prevenzione, alla promozione della salute, alla riabilitazione, al recupero e al reinserimento dei soggetti svantaggiati, alla tutela e all’empowerment dei più deboli.

Questa sorta di “rivoluzione culturale” ha incontrato grandi resistenze e ha impiegato molto tempo a dispiegare alcuni risultati importanti: esaurita la grande fase della mobilitazione sociale e civile degli anni settanta, che ha sicuramente contribuito in modo rilevante alla trasformazione di alcune importanti politiche di welfare, si è proceduto con grande lentezza nel Paese e in modo assai difforme nelle varie regioni.

Solo sul finire degli anni novanta c’è stato un sussulto della politica, che ha segnato un vero e proprio momento di discontinuità: sono nati i servizi pubblici per l’impiego, gestiti nei territori, ponendo fine ai polverosi e inefficaci uffici di collocamento del ministero del Lavoro; è stato finanziato per la prima volta un “Piano nidi” per colmare uno dei buchi neri del nostro sistema di servizi per l’infanzia; si è sperimentato un programma di Reddito minimo di inserimento che superasse la politica assistenziale dei sussidi e collegasse l’erogazione di una prestazione monetaria a un piano personalizzato di servizi volto alla rimozione delle cause dello stato di indigenza; si è arrivati con la riforma dei servizi e delle prestazioni sociali (legge 328/2000) a progettare finalmente un’architettura welfarista in base alla quale Stato, Regioni, Province e Comuni, ciascuno con compiti definiti, avrebbero dovuto dar vita a un sistema incentrato su un nuovo diritto di cittadinanza, in conseguenza del quale tutti sarebbero stati in grado di ottenere una risposta ai propri bisogni socio-assistenziali.

Dopo istruzione e sanità, le architravi universalistiche su cui tuttora poggia il nostro welfare pubblico, si intravedeva finalmente un nuovo “pilastro” tendenzialmente universalistico. Ciò a oltre un secolo, facevano notare i commentatori, dalla prima e unica riforma dei servizi socio-assistenziali, quella del governo Crispi del 1890. Nel frattempo, si era andato configurando il nuovo welfare mix di fine secolo: la legislazione speciale su volontariato e cooperazione sociale prima, e quella successiva sulle onlus e sull’associazionismo di promozione sociale, avevano dato forma al quadro in cui si sarebbero andati a collocare i rapporti di collaborazione fra soggetti pubblici e terzo settore, soprattutto nell’ambito dei servizi sociali alla persona e sanitari.

Questa nuova atmosfera ha indubbiamente contribuito a una crescita dei servizi, che tuttavia non è stata in grado di colmare vuoti storici e disuguaglianze territoriali assai rilevanti, soprattutto fra Nord e Sud. In quegli anni comunque le professioni del sociale escono dal cono d’ombra nelle quali si erano trovate fino ad allora: si mette mano ai percorsi formativi e il social work guadagna una posizione meno marginale sulla scena delle politiche sociali. Tale legittimazione trova un preciso riscontro nella creazione di percorsi universitari per esercitare l’attività di assistente sociale, alla stessa stregua di quanto già presente in altre professioni tradizionalmente più consolidate. Lo spazio del welfare sembra aprirsi a una crescente presenza di servizi, caratterizzati da un importante presidio delle professioni di aiuto, fra cui principalmente la figura dell’assistente sociale.

Tale prospettiva, tuttavia, subisce un importante stop con il nuovo secolo: resistenze culturali, incapacità delle classi dirigenti, sia a livello centrale che periferico, e controtendenze politiche, unitamente alla Grande recessione, alle conseguenti politiche di austerità e alla debolezza dei soggetti della rappresentanza sociale e professionale, hanno contribuito a processi di reazione alle innovazioni e di delegittimazione del lavoro sociale, così come del lavoro pubblico. Le prepotenti iniezioni di cultura mercatista, aziendalista e di tipo ragionieristico, che hanno contraddistinto la scena dei servizi, mal si conciliano con la necessità di guardare innanzitutto all’efficacia e alla ricaduta delle attività sociali.

Oggi, di fronte ai cosiddetti “nuovi rischi sociali”, si avverte ancora di più nel nostro Paese l’inadeguatezza del sistema di welfare: in particolare l’incapacità dell’offerta di servizi in grado di affrontare compiutamente l’inserimento e l’integrazione degli immigrati, il contrasto delle povertà, con particolare attenzione ai minori, le nuove forme del disagio abitativo, la necessità di politiche attive del lavoro volte a “capacitare” le persone e a fornire loro gli strumenti per un pieno e pronto (re)inserimento nel mercato del lavoro, i bisogni della non autosufficienza e le problematiche del lavoro di cura, la creazione di un sistema adeguato di servizi per l’infanzia. E ciò che comunque si muove a livello locale nel tentativo di fornire qualche risposta non riesce a caratterizzare allo stesso modo i diversi territori: cresce il divario fra le regioni del nostro Paese, tanto da poter parlare ormai di un “welfare del Nord” e di un “welfare del Sud”.

La consapevolezza di tali scenari non appare, tuttavia, molto diffusa: gran parte della politica appare ancora affascinata dal paradigma neoliberista e contraddistinta da una sorta di “pensiero unico”, in base al quale la spesa pubblica sociale deve essere ridimensionata a favore delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni; l’opinione pubblica è costantemente scossa da messaggi volti a screditare il lavoro pubblico, dall’Università alle Regioni, dalla (mala)scuola alla (mala)sanità, dai centri di accoglienza degli immigrati ai servizi dei Comuni, alle burocrazie dell’Inps o degli uffici delle Asl; la gran parte dei grandi soggetti della rappresentanza (sindacati e partiti) fa fatica a sintonizzarsi sulla nuova domanda sociale e a modificare in modo significativo la propria agenda; solo il volontariato e il terzo settore, che crescono visibilmente, godono di un alto livello di fiducia da parte dei cittadini (accanto alle forze dell’ordine e alla magistratura).

Tutto ciò non facilita certamente la necessaria ricalibratura del nostro sistema di welfare, la sua profonda riorganizzazione e l’affermazione definitiva della cultura dei servizi, ridimensionando così la centralità dei trasferimenti monetari. La difficile innovazione del sistema italiano non può non basarsi invece su una nuova “grammatica” del welfare: capacitazione, empowerment, protagonismo degli attori, partecipazione, solidarietà, rafforzamento dei legami, mediazione sociale e culturale, rispetto e tutela dei diritti, deburocratizzazione delle attività, approccio di social investment volto a rafforzare il cosiddetto “capitale umano” lungo tutta la filiera della conoscenza dall’infanzia, fino all’università e alla formazione professionale.

Ugo Ascoli è professore ordinario di Sociologia economica all’Università Politecnica delle Marche; Alessandro Sicora è docente di Servizio sociale all’Università Ca’ Foscari di Venezia