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Una volta, quand’eri studente, hai visto uno poco più grande di te salire in cattedra. Hai chiesto al vicino, Ma chi è questo, perché fa lezione? Si chiama dottorato di ricerca, lo vincono in tre all’anno. E poi? Poi ti bandiscono il concorso e diventi prima ricercatore, poi associato, poi ordinario. Bello. Nel frattempo ti sei laureato col massimo dei voti, certo non è questo gran record a Lettere, comunque con tutti 30 e lode è ancora piuttosto raro, perciò se vuoi provare un dottorato, alla fine, te lo chiedono. Il dottorato, ti spiegano, funziona in questo modo: c’è un tema da fare, e lì devi cavartela da solo, perché gli scritti sono anonimi, e solo alla fine della correzione si identifica il candidato, da una busta a parte. Un po’ complicato, ma sembra onesto.
Se il tema va bene, si fa poi una telefonata alla commissione. Questa telefonata è come la raccomandazione agli esami di maturità: ce l’avevano talmente tutti che se non ce l’avevi pure tu eri sfigato. E poi a Tamara serviva 60 per l’ammissione alla Bocconi, a Carla per la Luiss, Simona voleva fare il test per la Normale (dove il voto di partenza non conta, ma è sempre meglio avercelo alto secondo il padre di Simona, che siccome era carabiniere l’aveva potuta raccomandare allo zio vescovo). Dopo il tema però può capitare che il tuo prof. si dimentichi di informarli che tu sei tu, mentre i prof. degli altri, solertissimi, spiegano che loro sono loro, così la borsa va a loro. Dopo tre anni che ti sbatti più o meno gratis, ti dicono che no, non puoi mollare adesso, però noi non riusciamo a garantirti niente, e devi guardarti intorno, i tempi sono cambiati. Magari nel frattempo ti sei già guardato intorno, e fai almeno due o tre lavori bibliografici ai limiti dello schiavismo. Un giorno, se sei un miracolato, ti arriva la fatidica telefonata.
Lo vuoi un assegno di ricerca? E cos’è, un assegno di ricerca? Un assegno è un contratto che non esiste, fin quando non ti telefona qualcuno per chiederti se lo vuoi, e a quel punto è tuo. Allora lo vuoi sì o no? Sì, lo voglio. Un anno di stipendio pari più o meno a mille euro, con l’unica contrainte di svolgere la tua ricerca. Mi piace, in teoria. E dì, me la faresti domattina una lezione sul Pasticciaccio? Ti sei laureato in Lettere, hai fatto pure un dottorato di ricerca, ma una lezione improvvisata su Gadda no, non si può proprio fare. Comunque la fai, perché ti sembra che ti paghino per quello, anche se non è proprio del tutto vero. Poi vai a correlare le tesi, te le leggi dalla prima all’ultima parola, e non va bene nemmeno così, perché poi stai lì a cavillare, e la commissione non vuole rogne.
Dopo un anno l’assegno, per un secondo miracolo, ti viene rinnovato. Pensi a un investimento sulla tua persona: l’università dopotutto è un’azienda, e nessun’azienda investirebbe mai sulla formazione del personale per poi licenziarlo. Ma non si può dire che l’università sia un’azienda, non in Italia. In Italia dopo due, forse anche tre, e persino quattro anni di investimento nella tua formazione, l’università ti licenzia. Perché l’assegno si deve liberare, serve all’allieva del professore. Ma come? potevo, allora, intascarmi lo stipendio senza muovere un ciglio: che cambiava? Hai sbagliato il momento, sei stata sfortunata. Guardati intorno, datti da fare, riprova.
Quando non scrivi sui giornali dici sempre male di quelli che ci scrivono: che non sanno le cose, che le inventano, che è tutto un giro di amicizie e di favori. Poi segretamente brighi per scriverci pure tu, cerchi un contatto qualunque, un canale, come si dice.
Metti che ti va bene e lo trovi: ti avvertono subito, Non vedrai un euro. Dici che non importa, che pur di scrivere su quel giornale eccetera. La prima volta che ci scrivi non se ne accorge nessuno, e mezza giornata se ne va solo in sms, per avvisare gli amici. Ma già il secondo pezzo lo scrivi in grande affanno, visto che gli unici ad essersene accorti sono proprio quelli del giornale, e ti vogliono (si usa molto anche questa) mettere in prova: Ti bastano due giorni per un commento dantesco in quattro tomi, o preferisci la biografia di Cavour? Quando sei in prova, poniamo, in un’azienda, dopo un paio di mesi che lavori, o ti mandano via o ti assumono. Puoi scegliere se come dipendente (= meno soldi, ma stipendio fisso) o consulente (il contrario). In un giornale no, non ti assumono. Devi fare la scuola, lo stage, l’esame. Non sei nemmeno pubblicista, e non lo sarai mai perché non ti pagano. Come non ti pagano, e che scrivi a fare? Oltretutto non li legge nessuno, i giornali (dicono anche questo, di solito). Intanto devi comunque, prova o non prova, scrivere un pezzo a settimana, se ti occupi di cultura andare da Feltrinelli e comprarti i libri coi tuoi soldi (e di chi, se no?). Dopo un po’ che scrivi, però, circola la voce, e gli editori o gli autori stessi ti mandano o ti fanno mandare i loro libri. Ora: se io fossi un editore o un autore che promuove un libro, andrei con timidezza a presentarlo in giro, in punta di piedi, mica bussando come un piazzista di enciclopedie casa per casa, o urlando da candidato sindaco nelle campagne elettorali dei paesi: Sono l’autore di Storia dei moti del ‘21, con documentazione ragionata, ma come non l’ha letto? E me la può fare sì o no una recensione? Nel frattempo continuano imperterriti a dire schifo e a morte i giornali e i giornalisti, che non s’informano, che non leggono i libri, che li inventano.
Un giorno in redazione fanno finta di non essersi mai accorti che in circa tre-quattro anni di collaborazione stabile non ti hanno mai pagato nemmeno un pezzo, e ti promettono che proprio in via del tutto eccezionale avrai un vaglia a fine mese, ma non ti ci devi abituare. Tu gli vorresti baciare le mani come Fantozzi al Super Mega Direttore, però ti astieni imponendoti, per dignità, di verificare preventivamente l’accredito: infatti nessun problema, niente proscinesi, il conto resta immacolato, ma vuoi mettere la soddisfazione? In realtà poi è anche giusto che chi svolge un lavoro intellettuale non venga pagato, perché l’intellettuale deve star fuori dal sistema capitalistico e dal mercato, per mantenersi puro e incorruttibile. Poi, quando va in edicola a comprarsi il giornale su cui lui stesso scrive, lo paga, difatti, candido e incontaminato, con apposito sorriso.
Una volta hai pubblicato su una rivista letteraria delle poesie. Poesie non proprio, in effetti, più “cose che hai scritto un pomeriggio in cui non avevi granché da fare”. O che avevi invece plurime scadenze in contemporanea, che quelli nella vita sono i momenti migliori per scrivere poesie. Ti telefonano per dirti che devi andare a un premio, sei finalista. Finalista di cosa, non ho mica mai scritto, ah, quelle, certo, poesie, e come no, sì che le ho scritte io, e chi se no.
Ti compri un vestito né troppo Amanda Ferrazzi (quella mezza tedesca del corso di Letteratura, che certe volte si metteva lo spacco sulla schiena per far vedere i segni dell’amore, ma piuttosto, secondo alcuni, le era caduta addosso la libreria), né Tiziana Lo Cicero, la poetessa che indossa per le “pfomans” solo apposite calze rosse e reciterebbe orgasmica pure l’Ave Maria. No, ti sei comprata un vestito adatto, diciamo così. Arrivi che già solo a vedere il palco ti viene l’asma. Ti fanno un cenno e devi proprio salirci. Basta avere un microfono, e qualcosa da dire. Sì. Quando scendi non hai ben capito cosa è successo. Eri tu quella che si strappava i capelli, urlando come un orgasmo di Tiziana Lo Cicero. Il premio poi non l’hai preso, ma certo tutti si sono congratulati per la “pfomans”, scuola Lillo Croce, hai fatto pure i vocalizzi prima. Sei a letto quando squilla il telefono, le nove di mattina, è il giorno del premio, Non serve che tu venga, ti dice il tuo sponsor (ne serve uno per ogni poeta, funziona così). Hanno già deciso tutto, lo danno a Cinzia Tinello. Ora: le tue non saranno poesie, ma nemmeno quelle di Cinzia Tinello. E poi, diciamola tutta, Cinzia Tinello, ma chi è? Delle volte, funziona così, si diventa Cinzia Tinello da che si era, fino al giorno prima, Cinzia Tinello.
La volta che pensi di averle provate tutte, arriva l’occasione della tua vita: ti pubblicano un romanzo, un editore non grosso, certo, ma nemmeno piccolo, con le sue risorse, i suoi giri. È una vita che sogni questo momento, scrivi sui quadernoni le storie di Maria e Felice da quando avevi sei anni. D’accordo, ma forse questo non è il momento giusto, un romanzo va scritto con cura, e non hai tempo, hai la collaborazione col giornale, l’assegno di ricerca…va bene, ci provo. Mandi due capitoli a settimana, l’editore è entusiasta: quasi quasi lo finiamo entro l’anno, ti porto allo Strega.
È la volta che ti paralizzi: passi otto mesi senza scrivere una cartella, pensi a quegli scrittori che lo fanno come gli impiegati, un tot al giorno, poi via al pub o al cine. D’accordo, non sei quel tipo di scrittore lì, ti consola il tuo editore, il tuo libro nasce da una necessità interiore, devono maturare i tempi, dobbiamo far uscire fuori tutto quello che hai dentro. Tanta comprensione ti commuove, ugualmente non ti sblocchi. Sei talmente disperata che ricicli tutto, come dal maiale, mancano solo Maria e Felice, e da quello che hai scritto dall’infanzia all’altro ieri hai salvato veramente la qualunque.
All’editore piace, sì, gli piace moltissimo, e gli piace talmente tanto che ti chiedi se davvero ti legga mai, o si limita a scorrere la penna sul foglio, mentre ti guarda le gambe. D’accordo, è un uomo, prima che un editore, e gli si può anche concedere che non ci abbia mai provato in modo troppo diretto, piuttosto tu, qualche ammicco, per un po’ di considerazione in più, dicevamo del premio Strega, adesso pensiamo a finire. Ma come, manca molto? Un po’ manca. Nel frattempo si è sparsa la voce, perché il mondo editoriale è come le serve nei pullman, non si tengono niente. Te ne viene il vantaggio che ti offrono un anticipo migliore.
E adesso come faccio? Ti maceri come quando hai tradito un fidanzato, chiami a raccolta forum di amici per settimane, alla fine decidi che i soldi per te contano eccome, visto che l’assegno finisce e il giornale, t’avesse ancora mai manco regalato una copia. Allora vai determinata, ma mentre lo guardi pensi che lo hai tradito, e lui, del resto, ti presenta il conto salato della tua colpa in uno sguardo definitivo: per me puoi andare. E lì quasi piangi e ti scusi e giuri che non andrai mai più con un altro, e mentre hai quasi firmato con lui, con lo stesso di prima, con quello che incredibilmente ti offre di meno, un contratto, esci comunque serena perché sei nel giusto, e vedrai, i soldi a cui rinunci, in cosa si trasformeranno. Lo Strega? Accenni tu. Dai, quale Strega, non ti fissare: vedrai che ti viene del bene comunque, e poi, non ne vuoi scrivere subito un altro? Questo è proprio il momento migliore, quando nemmeno ti è uscito il primo. E ci penso già, sai, al tuo prossimo libro, ho anche il titolo: Altre vite, romanzo a puntate.
L'autrice Gilda Policastro è nata a Salerno ma è cresciuta in Basilicata. Assegnista all’università di Perugia collabora con Alias, Liberazione e L’indice dei libri del mese. La sua silloge Stagioni e altre è edita nel Decimo Quaderno di Poesia di Marcos y Marcos (2010); nel 2010 è uscito il suo primo romanzo Il farmaco (Fandango).