“Job Art, con la cultura si cresce” arriva oggi (4 novembre) a Roma. Sarà l’ultima tappa del viaggio per l’Italia intrapreso un anno fa dalla Filcams, che per l’occasione ha organizzato un convegno cui parteciperanno Tomaso Montanari, professore ordinario di Storia dell’Arte moderna alla Federico II di Napoli; Maria Grazia Gabrielli, segretaria generale Filcams; Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali; Susanna Camusso, segretario generale Cgil

“Dada non significa nulla”. Così il poeta Tristan Tzara rispondeva a chi gli chiedeva il significato del movimento surrealista da lui creato, il dadaismo. Anche Job Art, in fondo, non significa granché. È l’accostamento di due termini inglesi “lavoro” e “arte” fatti convolare a nozze, in tempi sufficientemente non sospetti, per scansare accuse di volute assonanze con un altro ben più noto binomio: Jobs Act. Il lavoro prima di tutto, quindi. Ma un lavoro nuovo, fieramente non precario, finalmente stabile e professionalizzato deve essere la conseguenza naturale di una nuova stagione di investimenti materiali e immateriali sulla cultura e la sua poco indagata filiera.

Il viaggio della Filcams attraverso la “Grande Bellezza” e le molte – ancora troppe – bruttezze del paese, iniziato il 3 ottobre 2014 da Lecce, dopo aver attraversato tutto lo stivale si conclude oggi (4 novembre) a Roma con la presentazione della Carta per il turismo dei lavoratori, che – spesso in precario equilibrio – operano lungo i tanti rivoli dell’ospitalità italiana. Per comodità questi operatori siamo abituati a classificarli nel comparto del turismo,  ma ora che anche (e purtroppo) i contenitori contrattuali che li racchiudevano sono implosi sotto il peso della crisi economica e della miopia imprenditoriale, è il caso di approfondire, complicare, anziché come si è fatto per anni, semplificare.

Il turismo non esiste. Esiste un insieme complesso e magmatico di imprese (alberghi, ristoranti, bed and breakfast, agenzie di viaggio, parchi divertimento, stabilimenti balneari), che insieme rappresentano  l’offerta, che a sua volta si disarticola in vari prodotti alla ricerca e agli ordini di un mercato globale assai fluttuante e volubile. La cultura rappresenta sicuramente l’elemento maggiormente pregiato e appetito. E il turismo culturale la filiera potenzialmente più ricca, capace di spostare diversi punti percentuali di Pil nazionale. Ma la cultura non è un prodotto come un altro. È quanto di più prezioso e fragile la storia inimitabile dell’Italia ci ha consegnato, un patrimonio di emozioni da preservare, custodire, valorizzare e infine condividere.

Difficile quindi parlare di business quando solo si nominano gli Uffizi, il Colosseo e la Reggia di Caserta: difficile, ma necessario, perché “business is business”, anche se si vende l’esperienza di dieci minuti di contemplazione della Primavera di Botticelli. Il fatto è che si possono esprimere molti concetti utilizzando le parole giuste. È chiaro quindi che si deve affrontare il tema dell’economia della cultura con l’adeguato tatto, e con gli argomenti più idonei. Ma se ne deve parlare oltre i tabù, soprattutto quello assai radicato secondo cui il bello non possa fruttare e che il “vendere” bellezza sia automaticamente sinonimo di brutalità o di sfregio del patrimonio.

Oltre le incrostazioni della stanca dialettica tra ciò che deve essere pubblico e ciò che può essere privato, ci sono risposte non più rimandabili che un paese in crisi come il nostro attende. Come mettere a sistema il rapporto spesso complicato fra turismo e cultura? Chi può far girare gli ingranaggi di quella che ancora fatichiamo solo a concepire come industria dell’ospitalità? A questi e altri quesiti abbiamo provato a rispondere nel nostro viaggio in Italia, che ha toccato con mano problemi e risorse nascoste di questo plurisettore ancora orfano di una progettualità (verrebbe da chiamarlo piano industriale). Un filo rosso ha accomunato i nostri dibattiti aperti, le nostre tappe: il bisogno di organicità, di assemblare ciò che pare condannato, anche per i troppi approcci parziali, alla frammentarietà.


Di qui la decisione di realizzare uno studio, “Turismo, 20 anni senza” (I tascabili di Rassegna), a metà fra la ricerca e la riflessione, fra scienza e coscienza, che nasce dalla volontà di andare a fotografare gli effetti e i mancati effetti prodotti da vent’anni di interventi normativi destinati al settore del turismo, a partire dalla madre di ogni riforma, quella del titolo V della Costituzione, che ha conferito potestà legislativa alle regioni spostandola dal centro alla periferia. Ovviamente, il quadro che ne emerge è tutt’altro che confortante e ci racconta di vent’anni senza guida che hanno depresso anziché promuovere le nostre straordinarie potenzialità. I pochi esempi virtuosi si sciolgono in una babele di leggi e leggine in contraddizione, che ci consegnano un brand più adatto al Medioevo delle risse e degli odi comunali che alla contemporaneità.

Sarebbe stato però troppo semplice limitarci a una seppur utile azione di analisi. Troppo semplice e non all’altezza della Filcams Cgil, che fa della ricerca di soluzioni innovative, a partire dalle remote aree di tutela contrattuale, la sua cifra distintiva. Ecco perché anche in ossequio alla necessità di organicità prima richiamata, la Carta del turismo si pone come pars costruens attiva che ambiziosamente vuole provare a dare un contributo operativo concreto. Non si tratta dell’ennesima parziale ricetta per i mali del turismo di cui onestamente non si sente il bisogno. Si tratta di una road map che intanto noi seguiremo in coerenza con quanto votato all’ultimo congresso nazionale di Riccione. E che vorremmo stimolasse anche altri soggetti, a partire dalla politica, dalle istituzioni.

Abbiamo deciso volutamente di non partire dal lavoro e i suoi problemi, ma da ciò che quei problemi può risolverli, non concorrendo innanzitutto a crearli. Ma qualunque approccio si sposi, qualsiasi angolo visuale si utilizzi, a una sola evidenza portano le diverse linee di ragionamento: un lavoro senza prospettive, in balia di chiamate che non arrivano e voucher, precari per definizione, condanna l’economia turistica (culturale) al ruolo ancillare cui è stata relegata fino a oggi. Questo non lo afferma ideologicamente il sindacato. Lo determinano le scelte sempre più oculate dei turisti che puntano a vivere esperienze e non più a trascorrere banali vacanze, a divenire cittadini a tempo determinato dei nostri luoghi.

I viaggiatori 2.0 cercano la qualità nell’accoglienza, il suo lato più comunicativo, umano, e questo lato umano risiede essenzialmente nelle mani (e nell’intelligenza) di chi lavora, di chi accoglie, assiste, consiglia. “Vent’anni senza” è un contributo aperto, come aperta è la progettualità che la Filcams intende indicare e non dettare. Il viaggio di #JobArt ci ha insegnato questo. E il viaggio nelle nostre intenzioni è destinato a continuare.

* segreteria nazionale Filcams Cgil