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"La disuguaglianza è un male non solo in sé, non solo a causa della sua ingiustizia, crudeltà, immoralità e del suo potenziale distruttivo per la vita, ma perché incattivisce e immalinconisce gli animi". Parola di Zygmunt Bauman, il più famoso sociologo vivente, che affida a questa considerazione la conclusione di un suo articolo pubblicato dalla rivista online Social Europe Journal. La disuguaglianza, prosegue lo studioso e teorico della società liquida citando sarcasticamente un saggio americano, ha un "legame morboso con la biologia, ora finalmente confermato su basi scientifiche: 'Gli esseri umani sono stressati quando si trovano alla base di una gerarchia. Lo stress porta a cambiamenti biologici', come l'accumulo di grasso addominale, malattie cardiache, comportamenti autodistruttivi e (sic!) ... la povertà persistente. Ora, finalmente – prosegue Bauman con ironia -, sappiamo, sulla base di certificazioni fornite da illustri scienziati al di sopra di ogni sospetto, perché alcune persone sono affondate nella miseria e perché, a differenza di noi, non riescano ad evitare di affondare in essa, né, una volta affondate, siano capaci di uscirne: (…) è solo una questione di biologia, stupido!".
Il contributo dello studioso polacco è solo uno dei molti pubblicati in un dibattito in Rete su uguaglianza e giustizia (sociale) lanciato da Social Europe insieme alla fondazione tedesca Friedrich Ebert (vicina alla Spd) e allo svedese Arbetarrörelsens Tankesmedja. Una "discussione aperta", spiegano i redattori della rivista, che si pone l'obiettivo di ridefinire "la promessa dell'uguaglianza" nel pensiero liberale e socialdemocratico entro una società orientata al mercato. "Il dibattito si è appena concluso – mi spiega Christian Kellermann, uno dei redattori, in una mail – ma era solo il primo passo di un progetto che prosegue con una importante conferenza sull'uguaglianza a Stoccolma e con la pubblicazione dei contributi più appassionanti in un numero cartaceo di Social Europe".
In fondo Social Europe riprende la migliore tradizione della libera stampa, che sin dal suo parto illuministico si è data la missione di propagare idee e formare un'opinione pubblica progressista e riformatrice, e la converte nella lingua e con gli strumenti dell'era digitale. Così temi e valori che annaspano nella realtà della nostra società, della nostra politica e dei nostri media tradizionali, riprendono vita su un sito, con tanto di commenti 2.0 e avatar di Facebook e Twitter. Steele e Addison, per non parlare di Hume e Diderot, sarebbero contenti se potessero costatare che una certa idea di pubblicistica al servizio del progresso (spirituale, intellettuale) non muore mai, ma cambia semplicemente pelle grazie a un’interminabile metamorfosi tecnologica.
Tornando al dibattito, i contributi vengono essenzialmente da studiosi e sindacalisti di estrazione anglosassone e tedesca.
Frank Nullmeier analizza l'avvento di una "seconda fase del neoliberismo", osservando come dopo un brevissimo periodo keynesiano, durato poco più di un anno (2009), i governi abbiano reagito alla crisi del 2008 tornando a politiche neoliberiste e di austerità. Ma è un neoliberismo – nota lo studioso - che si perpetua dopo il suo stesso fallimento, non ha più l'appeal che conquistò gli elettorati e le opinioni pubbliche degli anni 80 e 90, ed è al contrario percepito sempre più come "socialmente ingiusto". Un'ideologia triste, insomma, che ha perso il suo seppure illusorio e individualistico ottimismo per scivolare in un "fatalismo ragionevole", in una conservazione e alimentazione del presente (con tutte le sue ingiustizie). Una dottrina (una politica di governo) che pur di sopravvivere è disposta a rinunciare persino al "concetto della libertà", strizzando l'occhio agli istinti xenofobi, agli odi religiosi e all'eugenetica.
Ma se i limiti dell'avversario sono chiari, dall'altra parte della rete, nel campo dove gioca la sinistra di governo (laburisti, socialdemocrazia), stile e schemi non entusiasmano affatto gli autori del dibattito. È ancora viva la critica alla Terza Via di Tony Blair e Gerhard Schröder. Se Klaus Mehrens sostiene che il neolaburismo ha spezzato il legame tra libertà ed eguaglianza (ormai "solo una minoranza della popolazione ha una qualche idea di cosa sia la giustizia sociale") e che la prima cosa da fare è ricollegare quel nesso, Colin Crouch aggiunge che Blair e i suoi epigoni si sono disinteressati della redistribuzione sociale senz'allarmarsi troppo per il divario tra ricchi (sempre più ricchi) e poveri (sempre più poveri).
Quello che va giù più duro di tutti, però, è ancora Bauman, che si chiede: "Ma lo sanno i socialdemocratici a cosa mirano? Ce l’hanno una qualche nozione di una 'società giusta' per cui valga la pena lottare? Ne dubito. Credo non ce l’abbiano. In ogni caso non nella parte di mondo in cui viviamo noi". L'intervento del sociologo, che cito nella traduzione pubblicata da Laura Franza su Micromega, è precedente al (ed esula dal) dibattito. Ma è troppo in sintonia con le disillusioni elencate sopra per non citarlo. I padri della Terza Via sono gli ultimi epigoni – secondo Bauman – di una sinistra che da quarant'anni insegue il neoliberismo della destra "secondo il principio: 'qualsiasi cosa voi (il centro-destra) facciate, noi (il centro-sinistra) possiamo farlo meglio'. Ma, al di là dei leader che vanno e vengono, Bauman imputa alla sinistra il fatto di aver "perso la sua specifica base costitutiva", la quale "è stata completamente polverizzata, trasformata in un aggregato di individui autoreferenziali ed egocentrici, in competizione per un lavoro o una promozione, con scarsa consapevolezza della propria appartenenza a un comune destino e una ancor minore inclinazione a serrare le fila e chiedere azioni solidali".
La deduzione a questo punto è obbligatoria: manca un punto di riferimento politico, la controparte dell'idea, quel policy maker disposto a raccoglierla e portarla nelle aule parlamentari e nei gabinetti governativi. Un partito, un'organizzazione d'interessi, che punti o torni a puntare su questo benedetto binomio uguaglianza+giustizia. Inutile soffermarsi troppo sulla sterilità (se non altro contingente) di un Machiavelli vedovo del Principe, o di un Voltaire abbandonato dal suo Federico II. Ma forse il gruppo di Social Europe, appoggiandosi a un think tank del calibro della fondazione Ebert, qualche arma nel cassetto ce l'ha.
Snodandosi tra citazioni di Aristotele, Hayek e Keynes, il dibattito non smette mai di focalizzare il problema: ossia che giustizia ed eguaglianza, nelle società occidentali, sono sempre più appassite. E che le vittime di questa erosione sono le classi medie e chi vive del proprio lavoro. Per questo (ricorda ancora Crouch) è cruciale affrontare l'altro lato della medaglia, il rapporto sempre più squilibrato tra ricchi e società. Il potere di influenzare le decisioni politiche, collettive, economiche che cresce giorno dopo giorno nelle mani degli abbienti, dei wealthy. Il potere di influenzare le opinioni: basta comprare qualche media. Il potere di tramandare il proprio stesso potere di generazione in generazione, attraverso un meccanismo chiuso di assi ereditari che ostacola la redistribuzione e la mobilità sociale.
Nel frattempo, ai piani bassi del grattacielo piramidale, ci si impoverisce. E accade anche in paesi insospettabili per noi italiani. Accade anche in quella Germania che nella pubblicistica nostrana assume spesso i connotati di Utopia, un luogo felice dove gli operai sono strapagati e i ministri si dimettono se copiano una tesi. Un luogo che forse non c'è, o non è come lo immaginiamo. Visto che nei Länder dell'Est povertà e denutrizione sono in aumento, e la paga base non supera i 5 euro l'ora. Visto che in Germania negli ultimi 20 anni la percentuale di stipendi bassi (nota Mehrens) non ha fatto che crescere, arrivando al 23%, sopra il livello britannico e vicino a quello degli Stati Uniti (25%). E che tutti i contratti firmati dai sindacati sono stati di tipo "concessivo": una rinuncia a qualcosa (salario, orario ecc.) pur di conservare lavoro e produzione.
Una tragedia, non c'è dubbio. E la risposta, come nota Gesine Schwan, non può che essere una maggior "trasparenza nella corrispondenza tra lavoro e salario" e una "drastica riduzione delle discrepanze di reddito, anche semplicemente attraverso la tassazione. Altrimenti le persone si demoralizzeranno in massa".
E se cercate altre proposte pratiche in questo dibattito, andatevi a leggere la parte finale del contributo di Frank Hoffer: sostegno alle scuole pubbliche in quartieri disagiati, salari minimi globali, abolizione del debito per i paesi poveri, abolizione dei paradisi fiscali, lotta al lavoro precario. È un programma più che sufficiente. Ma non bisognerà aspettare Federico II per realizzarlo, o almeno per provarci.