Torna ad affacciarsi nel dibattito politico-sindacale il tema del salario minimo. A fornire lo spunto per una ripresa d’interesse sull’argomento ci ha pensato l’annunciata ipotesi da parte del governo di introdurre la misura tra i prossimi decreti attuativi del Jobs Act. Una misura che, nonostante le sbandierate buone intenzioni di chi se ne fa promotore - ampliare l’area dei diritti e dell’inclusione, eliminando l’abuso delle paghe da fame - continua a incontrare forte l’opposizione delle organizzazioni sindacali.

Cgil, Cisl e Uil temono che la proposta del governo abbia l’obiettivo (nemmeno tanto recondito) di marginalizzare il sindacato. Eccessivo allarmismo? Non proprio: a questo proposito, basterebbe tener conto del fatto che in Italia esiste già un istituto che prevede un salario a parametro 100, che - essendo al più basso livello di inquadramento - è minimo. Questo istituto, che nel nostro paese è per tradizione il risultato di attività negoziale, si chiama contratto nazionale di lavoro ed è da tempo nel mirino degli inquilini di Palazzo Chigi, che non perdono occasione per decretarne la fine della “spinta propulsiva”.

Che altro senso può avere l’introduzione di un salario minimo per legge se non quello di depotenziare il ruolo del sindacato e ottenere di pagare meno i lavoratori? Sì, perché la cifra di 7 euro l’ora su cui starebbe ragionando l’esecutivo non sarebbe al netto, ma destinata a ridursi ulteriormente con il prelievo fiscale. Una soglia inferiore - oltre che al controverso valore di 7 euro e mezzo fissato per i buoni lavoro previsti per le prestazioni occasionali - ai minimi stabiliti attualmente dai contratti nazionali.

Non è dunque per puro spirito di conservazione se, di fronte a questo scenario, i sindacati continuano a chiedere con sempre maggiore convinzione che ci si limiti all’attuazione dell'articolo 39 della nostra Costituzione, che prevede la possibilità che venga estesa a tutti la cogenza del minimo contrattuale, garantendo la certezza della tutela dei lavoratori con minimi sensibilmente più alti rispetto a quelli ipotizzati dal governo.

Troppo alti i rischi se dovesse prevalere l’idea del premier Renzi. Il risultato pressoché inevitabile sarebbe una sorta di “balcanizzazione” del panorama contrattuale. Con il salario minimo per legge sarebbero rimessi in discussione i contratti nazionali per dare sempre più spazio alla contrattazione aziendale. Non solo. La stessa idea di sindacato generale, che cerca di dare uguali diritti a chi ricopre la stessa mansione, in ogni parte del paese e in ogni luogo di lavoro, finirebbe per essere drammaticamente sconfitta.