Nel XX secolo il movimento dei lavoratori e le sue istituzioni di riferimento erano associati alla speranza. Oggi questo sguardo rivolto al futuro sembra scomparso, soprattutto nel nostro paese. La politica è in crisi e i partiti non hanno più la forza di attrazione che avevano nel Novecento. Accanto a loro perde credibilità anche la rappresentanza delle forze sociali e i sindacati non godono di molta popolarità. Si è infatti diffusa, in questi ultimi decenni, l’immagine che il sindacato difenda solo strati limitati di lavoratori, che non si faccia carico delle nuove generazioni e del mondo del precariato.

È davvero così o il sindacato può offrire una spinta verso il cambiamento? Ha realmente esaurito le sue energie e il suo operato si rivolge soprattutto a chi è in pensione e ha già vissuto gran parte della propria vita? Oppure è in grado di raccogliere la sfida che gli pone il nuovo millennio, con la rivoluzione informatica, la globalizzazione e un mercato del lavoro sempre più ‘deregolarizzato’? E ancora, da almeno un ventennio il sindacato rivendica di occuparsi di ‘diritti’ e non soltanto di condizioni materiali di lavoro: ma i diritti che rapporto hanno con le condizioni materiali? Quali sono inalienabili e quali no? E perché da questi diritti sono sempre escluse le donne, che pagano il prezzo più alto in termini di disoccupazione e squilibri salariali?

Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, risponde a questi interrogativi in un colloquio serrato con Stefano Lepri, giornalista de “La Stampa”, nel volume dal titolo Il lavoro perduto, Laterza, da oggi in libreria. Con una certezza dalla quale partire: il lavoro è l’espressione fondamentale della vita di milioni di donne e uomini e senza di esso non può esserci sviluppo e democrazia.

Dall’Introduzione di Stefano Lepri
C’era una volta all’Università di Milano una ragazza di sinistra, femminista, figlia di borghesi laici e colti, che andò davanti ai cancelli delle fabbriche, come tanti studenti di quel tempo. A differenza dei suoi compagni, lei davanti alle fabbriche ci rimase. Adesso, dal 2010 in carica come segretario generale della Cgil, Susanna Camusso sente di dover impegnare ancora molte battaglie, per i diritti dei lavoratori come per i diritti delle donne. Ma quel sindacato che per i giovani di allora rappresentava una grande forza di riscatto, eventualmente da scavalcare per andare più avanti, alla gran parte dei giovani di oggi appare come qualcosa che non li riguarda. È anzi di moda domandarsi se il sindacato non sia divenuto una forza conservatrice. Pare ancora costruito sulla misura della generazione che si formò nelle grandi lotte degli anni ’70, ora prossima alla pensione o già a riposo, attaccata a conquiste del passato dalle quali però una parte crescente dei lavoratori è oggi esclusa. Fuori dai luoghi di lavoro dove è radicato, rischia perfino di apparire come una parte dell’establishment.

Finora il peso del declino italiano è gravato poco sugli anziani e molto sui giovani, sotto forma di scoraggianti prospettive per il futuro e di concreto calo del tenore di vita; in questa intervista Susanna Camusso riconosce che per parecchi anni il dilagare degli impieghi precari è stato dai sindacati condannato a parole, ma in realtà sottovalutato o affrontato in modo sbagliato.

Confrontarsi con questa montagna di difficoltà è indispensabile, e la leader della maggiore confederazione sindacale non vi si è sottratta. Saper parlare ai giovani, ed evitare che il sindacato si chiuda su sé stesso inseguendo proprie dinamiche interne, le appaiono le correzioni di rotta più importanti. Spiega a quali condizioni vede possibile negoziare con governo e imprenditori per rendere più efficienti lo Stato e le imprese. La sua tesi di fondo è che l’Italia non può permettersi di risparmiare sul lavoro; può rispondere alle sfide della globalizzazione solo investendo sul proprio capitale umano, ossia sulle persone, e creando nuovo lavoro per chi ancora ne è privo. Per questo parla di «lavoro perduto»: non soltanto nel senso di quello che viene a mancare – le tante fabbriche che nel corso della dura recessione chiudono – ma delle prospettive di impiego e di carriera che già prima della crisi avevano cominciato a disfarsi, con i giovani a spasso, i laureati costretti ad accontentarsi di lavoretti precari, le donne frustrate nel desiderio di indipendenza.

Vale la pena di verificare se funziona la sfida proposta da Susanna Camusso: ovvero che i lavoratori rendono di più se li si tratta meglio, e che la dignità del lavoro è il fondamento primo di una buona politica. Occorre più lavoro, occorre ridare valore al lavoro, ripete. E certo sentire che la propria fatica serve uno scopo condivisibile alimenta quello spirito civico di cui l’Italia ha grande bisogno. Alla crisi profonda in cui ci troviamo siamo arrivati per un fallimento collettivo dell’intera classe dirigente italiana, nessuna componente esclusa.

Rispetto ad altre occasioni del passato, in cui ai sindacati fu chiesto di sopportare sacrifici per il bene comune, la situazione è oggi diversa. In tutto il mondo, la globalizzazione ha cambiato i rapporti di forza a VIII favore delle imprese e a svantaggio dei dipendenti. La tesi di fondo di Susanna Camusso è che questa anzi sia la causa sommersa della crisi che ci attanaglia: le forze squilibranti della finanza si alimentano dall’eccesso planetario di risparmio, dovuto a una distribuzione del reddito troppo favorevole ai profitti. Si può obiettarle che questo problema non può essere risolto partendo dall’Italia, paese perdente nella gara della competitività. Ma la sua battaglia propone una riflessione importante: è sensato ritenere che l’Italia possa rafforzarsi comprimendo i salari, quando il rimedio principale agli squilibri dovrebbe essere alzare i salari nei paesi competitivi, in Germania come in Cina?