Pubblichiamo un estratto del libro Studio illegale di Federico Baccomo (in arte Duchesne), edizioni Marsilio. Il volume descrive in modo ironico - ma realistico - la vita di un giovane avvocato milanese. Sarà presentato giovedì 18 marzo a Roma, ore 11, presso la libreria Bibli di Trastevere, nell'ambito dell'iniziativa della Filcams Cgil dal titolo: "Studi Professionali: Dipendenti, Praticanti e Collaboratori: Uniti per contrattare il futuro".

Mi domandano: «Che lavoro fai?»

Rispondo: «L’avvocato d’affari.»

Poi, osservo attentamente le reazioni.

Una parte degli intervistatori si storce in una smorfia di disapprovazione: giudicano la risposta altezzosa, fuori luogo, vaticana. La maggioranza, tuttavia, dilata leggermente le pupille e si sporge verso di me e sembra voler esaminare questo esemplare d’uomo tanto normale alla vista e invece – l’avreste detto? – è un avvocato d’affari. Mi stringono forte la mano, si allontanano procedendo a ritroso, continuano a guardarmi. Alcuni muovono il dito in tondo (presto) e portano all’orecchio la mano a cornetta (ti chiamo). Hanno l’aria di chi poi riferirà agli amici dell’incredibile incontro di cui è stato protagonista – Non ci potete credere, un avvocato d’affari. Divento un po’ più alto, un po’ più intelligente, un po’ più ricco, sostanzialmente un amico intimo.

Le cose, per quanto mi riguarda, non stanno esattamente così. Io non voglio né disgustare né compiacere. Dopo anni di esperimenti, ho semplicemente capito che avvocato d’affari è la sola formula che mi permette di uscire indenne da qualunque domanda sulla mia professione: ho provato a rispondere semplicemente avvocato e la conversazione si è sempre infilata su binari che, con stupefacente puntualità, mi hanno condotto a sfracellarmi.

«Mio zio ha un garage che non usa da dieci anni e teme che…»

«No guarda, devi scusarmi, non sono esperto in diritto condominiale.»

«Ah. Comunque, mia sorella ha ricevuto da mia nonna lo stabile di Rogoredo, mentre io…»

«No, scusa, ti devo interrompere di nuovo, ma non sono molto ferrato nel diritto ereditario.»

«Uhm. La mia ex-moglie…»

«Nemmeno matrimoniale.»

«Ho fatto un incidente…»

«Niente infortunistica.»

«Ho un credito.»

«Nessuna ingiunzione.»

«Multa?»

«Sono mortificato.»

«…»

«…»

«Beh, scusa se te lo dico, ma non sai davvero fare un cazzo.»

Si allontanano scuotendo il capo.

Tendo a rimanerci male.

Avvocato d’affari mi risparmia scambi di questo tipo, è una formula vuota ma altisonante che mi consente di uscire a testa alta da qualsiasi richiesta professionale, mette gli interlocutori con le spalle al muro, costretti a un rapido esame di coscienza che esclude quesiti in grado di competere con un rango come il mio: gli affari. Così finisce che si sentono dei vermi, vorrebbero ritirare la domanda, scappare lontano, e ci si ritrova a parlare del tempo.

Perché io, sfortunatamente, non so davvero fare un cazzo.

Non mi pesa ammetterlo. E non si tratta di falsa umiltà o autocommiserazione. Solo un’onesta presa di coscienza.

Il mio lavoro è molto semplice nella sua incredibile complessità.

Tutto comincia con una società che bussa alla porta dello studio legale, solitamente nella persona di un uomo piuttosto arrogante, oltre che d’aspetto poco gradevole. L’uomo dice: «Devo comprare/vendere/fare perché ho intenzione di guadagnare parecchio denaro ed è necessario che tu, avvocato – sibilato tra i denti, in equilibrio sul filo che unisce l’indifferenza al disgusto – mi assista, perché io non solo non ho le competenze, ma neppure il tempo né la voglia di star dietro a tutto, considerato che devo andare in barca con Marina, un’universitaria che ho appena conosciuto e che a te non ti cagherebbe di striscio anche se hai vent’anni meno di me.»

«Ok» rispondo io, sgargiante, mentre negli occhi mi brilla il tondo sedere di Marina.

Saluto, dopo avere sinceramente riso a quattro o cinque battute moderatamente deprimenti, torno nella mia stanza, accedo al server centrale condiviso da ogni professionista, digito un paio di parole-chiave e dalla massa spuntano le fondamenta della mia specializzazione: i precedenti, documenti predisposti in un tempo lontano da qualcuno oggi probabilmente ricordato nelle omelie di novembre e ritoccati negli anni da chiunque se ne sia servito con l’aggiunta di una parolina qui, di una clausoletta là, di un titoletto in fondo e pronti per un nuovo uso. Come un pittore che conserva migliaia di tele dipinte su modelli d’ogni tipo e per ciascun cliente desideroso di fissare la propria immagine, non fa che scegliere la più somigliante e rifinirla, modificando un tratto del sopracciglio, un pelo del naso, una sporgenza sulla fronte, una ruga intorno agli occhi, fino a che il cliente non sia soddisfatto, così faccio io, che ricevo in dotazione documenti legali di ogni tipo – in italiano, in inglese, buyer-oriented o seller-oriented, sottoposti legge italiana, inglese, tedesca, lunghi decine e decine di pagine o brevi e semplici, contratti di acquisto, contratti di vendita, cessioni, pegni, ipoteche, verbali di assemblea, procure, fideiussioni, finanziamenti, ogni tipo di operazione per ogni tipo di cliente – scelgo il più adatto e comincio a lavorare applicando il moderno ragionamento giuridico:

- Trova Società X;

- Sostituisci con Società Y;

- Sostituisci tutto.

E un buon 50% del lavoro è fatto.

Il resto è operare su clausole riscritte e ritoccate centinaia di volte, alla ricerca del contratto perfetto o, più ragionevolmente, di una giustificazione a parcelle milionarie.

E allora perché passo le mie notti in ufficio, lavorando fino allo sfinimento?

Perché il pelo liscio nella narice destra aggiunto su consiglio del cliente non piace alla controparte, che preferisce un pelo riccio. Tre riunioni e due notti di lavoro portano al risultato: nessun intervento sul naso ma due peli nelle orecchie.

La notte prendo sonno facendo finta di essere importante.