Un euro a pezzo, o poco più. È quanto veniva pagata Paola Marras dalla testata Notizie.it per il suo lavoro ‘a cottimo’ da giornalista professionista, per un totale di 4.680,16 euro lordi (3.389 pezzi) in 18 mesi, cifra che non basta nemmeno per pagare un affitto. Questo è avvenuto sino a quando la donna, dopo il licenziamento che risale allo scorso ottobre, ha deciso di segnalare quello che può essere a pieno titolo definito un caso di sfruttamento del lavoro. Non solamente, alla giornalista – che vive in Sardegna e lavorava per un’azienda che ha sede a Milano – erano assegnati turni di 40 ore settimanali con l’obbligo di garantire la continua reperibilità via e-mail. La vicenda è emersa anche grazie all’interessamento della Slc Cgil regionale – in particolare di Sassari e Olbia – e della Cgil nazionale, in virtù anche di una lettera inviata da Paola Marras al segretario generale Maurizio Landini.

La mia è una classica storia di quello che viene chiamato caporalato giornalistico – dice Marras da noi intervistata –. Un sistema di sfruttamento ormai entrato in vigore da alcuni anni e che rischia di trasformare il giornalismo da ‘quarto potere’ in ‘quarto podere’. Ho 39 anni e vivo in una casa vacanza che è dei miei genitori, in provincia di Sassari. Da lì facevo il telelavoro, quindi non lavoravo certo per vivere, visti i 4.600 euro. Mi sono resa conto che la via era quella di resistere finché potevo, fino a quando non avrei trovato un altro lavoro, oppure di denunciare, perché oltretutto dovrebbe essere obbligatorio per noi giornalisti denunciare le irregolarità. Quindi mi sono rivolta al sindacato”.

La giornalista racconta le sue condizioni di lavoro non solamente economiche ed emergono tratti che avrebbero del ridicolo se non appartenessero a un quadro tragico, come ha notato la protagonista: “Avevo un turno da otto ore al giorno, ma venivo pagata a cottimo, 1 euro lordo per pezzi inizialmente di un minimo di 3.500 battute, divenute poi 2.000, e dico battute anche se in realtà venivo pagata a parole. È quasi comico: nel conteggio non erano considerate parole le cosiddette stop word, vale a dire le preposizioni, gli articoli, le congiunzioni… Ad esempio, se facevo un articolo su Lucio Dalla, il cognome del cantante non mi veniva conteggiato in quanto preposizione articolata, lo stesso se era su Di Maio o Kim Iong Un”.

Marras spiega la decisione di dire ‘basta’ non solamente con la consapevolezza che a 39 anni non si può avere un lavoro che non consenta di vivere, di pagare un affitto, le utenze e tutto ciò che serve per la sopravvivenza: “L’ho fatto perché in questa situazione ci troviamo in migliaia e mi sono rivolta al sindacato per far capire che questo non è il grido d’aiuto di una singola persona, ma è un mal costume troppo diffuso. L’ho fatto per cercare di passare il messaggio: quando la gente legge una notizia anche su smartphone, deve pensare che ci può essere dietro uno schiavo moderno, esattamente come avviene ora quando si compra un arancio. L’Fnsi – conclude la giornalista – mi ha ribattezzata ‘il paziente zero’, colui che identifica la malattia che sta ammorbando l’intero settore, e sono contenta che la Federazione della stampa e la Cgil si stiano organizzando contro il caporalato giornalistico”.

Dal canto suo l’azienda si difende sostenendo di non essere l’ennesimo giornale, ma una tech company nel mondo dell’informazione con metriche e moltiplicatori da tech company, appunto, e non da giornale. Nella sostanza però poco cambia e il caso non si può neppure dire isolato, come sottolinea Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi: “Ci sono decine e decine di giornalisti che capitano in situazioni con editori senza scrupoli, senza nessuna tutela dei propri diritti. È una situazione francamente vergognosa. Non solo umilia i singoli, ma mette a rischio l’articolo 21 della Costituzione, perché quando le persone sono strumentalizzate, sfruttate, private dei loro diritti diventa difficile esercitare il lavoro del cronista. Da qui la decisione – grazie anche al coraggio della giornalista che ha rotto il muro del silenzio – di assisterla legalmente e di denunciare questo caso, arrivando anche a un’iniziativa pubblica, perché dietro di lei ci sono decine di casi simili che noi vogliamo portare all’attenzione del ministero del Lavoro, degli organi di vigilanza, anche del sottosegretario Martella che ha aperto un tavolo sull’equo compenso, impossibile da riconoscere quando i diritti minimi possono essere violati come accaduto a Marras”.

Per il presidente della Fnsi “è importantissimo avere il coraggio di denunciare, ma le persone non vanno mai lasciate sole: perciò è fondamentale che questa azione sia portata avanti insieme dalle organizzazioni sindacali, per dare forza non solamente a tutti coloro che vorranno rompere il muro dell’omertà. Ed è necessario che anche il governo si faccia sentire. Non ci possono essere zone di impunità, zone franche, e non si può nemmeno accettare il tentativo di rovesciare le responsabilità per chi denuncia tentando di metterlo dalla parte del torto. Ogni qualvolta, per usare un’espressione forte, boia e vittime non vengono definiti si apre una situazione di pericolo. Ecco perché è necessario essere presenti con forza dietro Paola Marras, perché forse può essere un elemento determinante che fa sentire ad altre persone che possono denunciare perché non saranno lasciate nella solitudine che spesso impedisce di parlare. È un piccolo caso – conclude Giulietti – destinato a diventare un grande caso. Forse è il momento di pensare a un’iniziativa pubblica di denuncia che veda insieme i vertici di Fnsi e Cgil”. Paola Marrras al momento è in attesa che la causa da lei intentata abbia un esito e intanto vive “da precaria, ancora una volta, alla giornata... sperando nella provvidenza”.