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I numerosi documenti che compongono il Def, a partire dal Programma di stabilità (Ps) e il Piano nazionale di riforme (Pnr), potrebbero costituire un vero e proprio programma di governo. Nel quadro macroeconomico tracciato vengono così riportati gli effetti dei provvedimenti varati finora (anche nelle legislature precedenti) e l’impatto delle misure previste per il periodo 2014-2018: ritmi di crescita del Pil reale, in accelerazione da qui al 2018, a cui non eravamo più abituati dagli anni novanta (1,48 per cento medio annuo e 7,4 cumulato in 5 anni), nonostante i 9 trimestri negativi di variazione congiunturale del Pil e i 9 punti percentuali perduti dal 2008 al 2013; tassi medi annui di incremento delle esportazioni pari al 4,2 per cento e delle importazioni del 4 per cento, come negli anni precedenti alla crisi; consumi nazionali in crescita di 4,5 punti percentuali in 5 anni (tutti sospinti dai consumi privati, che ripartirebbero contando un tasso medio annuo dell’1,1 per cento), dopo esser tornati al livello del 1997 e dopo una caduta della domanda interna del 12 per cento dall’inizio della crisi; una ripresa degli investimenti fissi lordi, mai registrata sinora, che al 2018 dovrebbero essere aumentati del 16,2 per cento, anche qui, soprattutto grazie alla componente privata (macchinari, attrezzature e costruzioni), nonostante la produzione industriale e gli investimenti fissi lordi si siano ridotti di circa il 25 per cento dall’inizio della crisi.
Previsioni ottimistiche? Anche se ridimensionate rispetto al Budgetary Plandi ottobre 2013, le attuali previsioni governative non trovano riscontro nella maggior parte delle previsioni più accreditate a livello internazionale (riportate anche nel Ps). Nella prospettiva tracciata dal Def la nuova crescita dell’intero arco temporale di riferimento viene affidata ancora una volta al mercato, ovvero essenzialmente alla ripresa degli investimenti delle imprese e alla domanda estera, soprattutto extra-Unione.
Trascurando per un momento la plausibilità delle simulazioni econometriche e delle simulazioni d’impatto delle diverse misure previste dal governo nel Def, si conferma una logica liberista, mercantilista, fondata ancora una volta su austerità, svalutazione competitiva del lavoro, deleveraging e contenimento dell’inflazione (da domanda). E già solo per questo non può funzionare. Non c’è neanche più traccia del primo Jobs Act annunciato lo scorso gennaio, in cui era presente una tenue evocazione del piano per il lavoro di Obama (investimenti pubblici in innovazione, green economy, infrastrutture, reti energetiche, edilizia sostenibile ecc.), e della necessità di una politica industriale.
Viene fatto esplicitamente affidamento per lo più all’impatto positivo delle cosiddette riforme strutturali previste nel Pnr e, in particolare, delle semplificazioni amministrative, delle liberalizzazioni e dell’ulteriore deregolazione del mercato del lavoro, delle privatizzazioni, piuttosto che al contributo alla crescita del Pil ascrivibile alle misure fiscali di sostegno ai salari dei lavoratori e alle imprese (in verità, uniche misure a sostegno della domanda effettiva). Eppure, nella letteratura economica e matematica, finora, le riforme strutturali sono sempre state considerate “immisurabili”. Mentre gli studi e le
ricerche sul mercato del lavoro hanno sempre dimostrato che a una maggiore precarietà corrispondono perdite di competitività, di produttività e di crescita potenziale (basti pensare ai vari studi della Banca d’Italia, recentemente ricordati anche dal governatore Visco e il rapporto Ocse sull’occupazione del 2013, in cui si smentisce la validità della flexsicurity danese).
Una maggiore precarietà del lavoro, non solo si riflette negativamente sulla distribuzione del reddito e sulla domanda interna, ma rappresenta un disincentivo a riqualificare l’offerta e aumentare la qualità delle produzioni. Una maggiore flessibilità in entrata potrebbe rappresentare una misura su cui ragionare se ci fosse una forte strategia di sviluppo del sistema-paese che porti con sé l’obiettivo della piena e buona occupazione. Nel Def invece sembra più marcata la rinuncia a tale obiettivo, oltre che al recupero dell'occupazione pre-crisi. Basti ricordare che il tasso di disoccupazione previsto per il 2018 è l’11 per cento, mentre nel 2007 era il 6,1.
La scelta di fondo di non scommettere sul lavoro per uscire dalla crisi è il riflesso dell’idea di competitività del sistema economico e produttivo che il governo ha scelto nel Def: malgrado la capacità di generare valore aggiunto, produttività, fosse al centro di ogni analisi sulle debolezze strutturali del nostro paese, nel Def si manifesta apertamente la scelta di competere sui costi. Tale scelta, nelle prospettive economiche contenute nel Def, è resa evidente dalla modesta previsione del tasso medio annuo di variazione della produttività (mediamente 0,8 per cento l’anno), nella riduzione del costo del lavoro in termini reali (al netto dell’aumento dei prezzi misurato con il deflatore dei consumi, meno 0,2 per cento in 5 anni) e, nondimeno, nel programmatico contenimento dell’inflazione (malgrado i numerosi richiami internazionali sul rischio di deflazione e le ovvie ricadute negative sul debito pubblico e sull’occupazione). Il contenimento dei prezzi e del costo del lavoro va a scapito dell’obiettivo di aumentare l’occupazione, che statisticamente (essendo al denominatore del rapporto col Pil) ridurrebbe quella poca produttività prevista e sospingerebbe nuovi consumi e l’inflazione. I dati Istat, però, da anni ci dicono che la bassa produttività del paese dipende soprattutto dalla scarsa accumulazione di capitale e dalla sua scarsa capacità di incorporare progresso tecnico. Da qui nasce l’incapacità di utilizzare tutta la forza lavoro esistente, oltre che i saperi e le competenze disponibili, soprattutto nelle nuove generazioni. E sempre qui risiede la tanto discussa, quanto irrisolta, “questione salariale”.
Nell’approccio del governo, è in questa prospettiva che rientra la riduzione del cuneo fiscale. Tuttavia, secondo gli ultimi dati recentemente diffusi dall’Eurostat, nel 2013, la classifica del costo del lavoro orario (in euro) e dei livelli salariali (sempre in euro) colloca il nostro paese all’undicesimo posto in Europa e al nono posto nell’area Euro, dietro a tutte le principali economie industrializzate, con cui si dovrebbe misurare la competitività (di costo) delle produzioni e dei servizi nazionali, a cominciare da Francia e Germania. È un problema di produttività.
Anche volendo restare sul terreno della competitività di costo, la misura statisticamente più rappresentativa appare il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), dato dal rapporto tra costo del lavoro orario e produttività oraria, calcolata come valore aggiunto per ora lavorata: sempre utilizzando dati Eurostat, dal confronto europeo su produttività e Clup, nel 2012 (anno con tutti gli ultimi dati disponibili), si evince chiaramente che il nostro paese ne esce ultimo in classifica (assieme a Malta) a causa della bassa produttività per ora lavorata. A parità di investimenti il sistema economico e produttivo italiano genera il 20 per cento in meno di valore aggiunto degli altri paesi dell’area Euro. Inutile competere sul costo del lavoro: bisogna investire, tanto e bene. Se, dunque, un paese non investe e non è in grado di fare innovazioni e ricerca, l’ottenimento di un aumento della produttività risulta difficilmente perseguibile. Benché i margini delle politiche nazionali siano limitati, l’intensità della recessione italiana, l’indebolimento del tessuto produttivo, la gravità della questione occupazionale e la profondità della crisi nel tessuto sociale sono tutte criticità che richiederebbero un programma di governo più ambizioso.