Persino la Commissione europea, la “nuova” Commissione di Jean-Claude Juncker, scommette sul rilancio del dialogo sociale. L’occasione, la conferenza “A new start for social dialogue”, che si è tenuta di recente a Bruxelles. Una presa di posizione dettata dalla convinzione che il confronto con gli stakeholder sociali, sia sul versante sindacale che su quello dei datori di lavoro, rappresenti la strada maestra per una soluzione democratica ai processi decisionali, tanto in ambito Ue che nelle singole realtà nazionali.

Sostanzialmente un nuovo inizio, almeno negli annunci, dopo gli anni gloriosi della Commissione guidata da Jacques Delors, il primo a credere nel coinvolgimento attivo dei corpi intermedi come elemento insostituibile per la definizione – attraverso la condivisione di obiettivi comuni – della dimensione sociale dell’Unione.

Un percorso virtuoso, fatto di accordi, di analisi congiunte e sedi di confronto, bruscamente interrotto sotto la presidenza di José Manuel Barroso, convinto sostenitore del fatto che l’asse delle politiche della Commissione dovesse seguire quello delle teorie neoliberiste imposte negli anni della crisi dal Washington consensus e, di conseguenza, dell’indebolimento delle funzioni di rappresentanza delle parti sociali.

Della necessità di invertire il trend sono persuasi soprattutto i sindacati. Le sfide che sono davanti al mondo del lavoro, conseguenza diretta di una crisi quasi senza precedenti, richiedono una convinta ripresa del dialogo tra tutti i portatori di interessi. Sperando nel contempo che dai vertici europei vengano adottate d’ora in avanti scelte strategiche meno contraddittorie di quelle fin qui messe in campo.

Un auspicio espresso a chiare lettere alla conferenza di Bruxelles dalla segretaria generale della Ces Bernadette Ségol, che in aperta polemica con chi oggi sostiene di voler promuovere la riapertura del confronto, ha ricordato come siano state proprio le pressanti richieste della Troika a causare negli ultimi anni la rottura dei tavoli di trattativa in molti paesi, a cominciare dalla Grecia, dalla Spagna e dall’Italia.

Da tutti i sindacati dei paesi aderenti all’Unione, così come da un congruo numero di osservatori economici, si leva dunque forte la domanda di un abbandono di quell’austerità che così pesantemente sta mettendo a rischio il presente e il futuro, quando non la stessa esistenza dell’Europa. Nell’agenda della Cgil, delle Comisiones Obreras e della Gsee, così come in quella della Dgb, al primo posto non può che esserci la richiesta di un maggiore investimento sul lavoro, sia in termini di qualificazione, sia in rapporto ai necessari processi d’innovazione. Niente di più lontano da quanto nel nostro paese sta realizzando – con il suo Jobs Act – il governo Renzi.