L’ultimo rapporto Oxfam, che ci ha segnalato tra le altre cose che gli otto multimiliardari più ricchi del mondo hanno un patrimonio pari a quello del 50% più povero del pianeta, ha riportato alla ribalta un tema troppo spesso sottovalutato. Le diseguaglianze. È, la diseguaglianza di reddito e la ancora maggiore diseguaglianza patrimoniale, una delle concause dell’avvilupparsi della crisi di domanda che ormai attanaglia dal 2008 il pianeta e l’Europa in particolare.

L’incremento delle diseguaglianze nel nostro continente e nel nostro Paese è d’altro canto la spia di quanto le politiche dell’austerità siano state – e saranno, se ottusamente perseverate – inefficaci e non abbiano corretto le distorsioni del modello di sviluppo che già prima della crisi creava diseguaglianze e dunque vuoti di domanda effettiva, che hanno innescato recessione, disoccupazione, deflazione.

Leggere sotto questa ottica i dati della distribuzione del reddito diffusi da Cassa Forense nel suo quadrimestrale può essere utile per abbandonare definitivamente il luogo comune, ancora radicato, del mondo degli avvocati come di un mondo di privilegiati, benestanti ed esosi professionisti che approfittano delle riserve di legge per vivere con un tenore di vita che la maggioranza delle persone non potrebbe mai permettersi.

Questa idea (sbagliata) nasce anche per responsabilità di alcuni dei più diffusi mezzi di informazione, che mostrano, ospitano e danno voce ad avvocati ricchi e famosi, che si pensa rappresentino solo la punta dell’iceberg di una classe agiata. I dati di Cassa Forense ci mostrano quanto invece anche la metafora degli iceberg sia fallace. Prima di analizzare le conclusioni a cui si può giungere utilizzando i dati reddituali degli avvocati crediamo sia meglio contestualizzare il livello nazionale delle diseguaglianze in cui essi si inseriscono.

Prendendo in considerazione l’imponibile Irpef da lavoro dipendente (forniti dal Dipartimento delle Finanze, anno 2015), risulta che il 10% più ricco ha incassato il 28,7% del totale di reddito da lavoro dipendente, mentre il 50% più povero ne ha incassato solo il 19%. Certo una diseguaglianza importante, ma inferiore a quella che si registra per i redditi complessivi (dove il 10% più ricco incassa il 33% del reddito totale) o, per fare un confronto internazionale, in quegli Stati Uniti che Piketty definisce “la società dei superdirigenti”.

Potremmo, dopo tante critiche a quel “ferro vecchio” che è il sindacato, pensare che il livello inferiore di diseguaglianze tra i redditi da lavoro sia merito della contrattazione collettiva che dimostra di avere effetti redistributivi – almeno per i lavoratori che ne godono –? Ovviamente la domanda è retorica, e vi ha già dato risposta il Fondo Monetario Internazionale (“Power from the people”, marzo 2015).

*”Modello non pervenuto”: è inserito nel totale solo per il numero di posizioni

Di fronte ai dati sui redditi imponibili Irpef degli avvocati presenti nella tabella riportata qui sopra, dobbiamo abbandonare la metafora della punta dell’iceberg. La parte emergente e visibile è infatti il 10% della massa totale del “ghiaccione”, mentre gli avvocati con redditi a cinque zeri sono solo il 7,5%, cui affluisce il 48,5% del reddito imponibile Irpef della totalità degli avvocati. Di contro, gli avvocati che guadagnano meno di 19.857 euro (ammontare che li condanna al pagamento del minimale di cassa a prescindere dal reddito effettivo) sono il 56,20%, e si portano a casa solo l’11,5% del reddito totale.

Parliamo di autonomi, di contrattazione individuale di tariffe e corrispettivi, parliamo di quella libera contrattazione che per anni ha fatto arricchire gli avvocati fino ad autorizzare quei luoghi comuni di cui abbiamo parlato all’inizio. Ma è un'evidenza, ormai, che questa modalità di distribuzione del reddito provoca una gran massa di esclusi, di poveri, di vite permanentemente precarie. Parliamo di 120 mila avvocati che si barcamenano con redditi medio-bassi, a volte da fame, e che spesso sono formalmente autonomi in monocommittenza, ma lavorano all’interno di studi professionali in cui si perpetra uno sfruttamento legalizzato.

Senza contare che manca, per questi professionisti che vengono definiti avvocati “sans papier”, la possibilità di richiedere la subordinazione anche a fronte della presenza di tutti i parametri necessari, perché la professione di avvocato e l’iscrizione all’ordine sono incompatibili con lo svolgimento di lavoro subordinato o parasubordinato. Ha fatto dunque bene la Cgil ad aprire alle associazioni forensi: una decisione che ha permesso anche al sindacato di comprendere i mutamenti di un mondo storicamente lontano, ma che ormai, e i dati analizzati ne forniscono conferma, ha esigenze di tutela e di rappresentanza.

Le varie associazioni forensi, e in particolare gli interventi nelle riunioni della Consulta del lavoro professionale della confederazione dei rappresentanti di Mga, Mobilitazione generale degli avvocati, hanno contribuito a far assumere al sindacato questa nuova consapevolezza, che si è concretizzata con una proposta di legge – ormai prossima alla presentazione – finalizzata a far decadere l’incompatibilità tra professione e subordinazione o parasubordinazione. In coalizione con le associazioni forensi che condividono questa sensibilità (finora Associazione nazionale forense e Mga), proporremo il progetto ai lavoratori e chiederemo loro di firmarlo, perché il ruolo storico del sindacato è migliorare le condizioni materiali delle persone che lavorano, a prescindere – come ben chiariamo nella nostra proposta di Carta dei diritti – dall’attività svolta e dalla forma contrattuale.

Per il sindacato questa è una grande opportunità per ampliare il perimetro dei diritti, per diminuire le diseguaglianze, per riconoscere le peculiarità del lavoro genuinamente autonomo e, viceversa, per ricondurre alla subordinazione o parasubordinazione ciò che autonomo non è.

Cristian Perniciano è responsabile delle Politiche fiscali e della Consulta professioni Cgil nazionale