Nel 2012 un curioso quanto drammatico episodio sale alla ribalta delle cronache mondiali quando una giovane donna newyorkese, all’interno della borsa appena acquistata in una lussuosa boutique della Fifth avenue, trova uno strano biglietto: “Aiuto, qui ci trattano come schiavi”. È la disperata supplica di un ragazzo cinese, costretto ai lavori forzati per produrre capi d’abbigliamento destinati ai mercati occidentali. L’aneddoto è singolare, ma non è purtroppo singolare la situazione che ha portato a scrivere la drammatica missiva: la schiavitù, nonostante sia stata dichiarata illegale in quasi tutti i paesi del mondo, è un’aberrazione che permane, anche laddove meno ci aspetteremmo di trovarla.

Su questo versante, ha provocato parecchio scalpore il Global slavery index , un rapporto pubblicato dall’organizzazione non governativa australiana Walk free foundation (Wff),  secondo cui i nuovi schiavi nel mondo sarebbero circa 36 milioni. Tra coloro che hanno incoraggiato a misurare il fenomeno c’è addirittura Bill Gates, il quale ha sostenuto che il problema “se non lo misuri, non esiste”. Per il calcolo dell’indice, lo schiavo “moderno” è definito come un individuo privato della libertà individuale a scopo di sfruttamento.  Le pratiche annoverate come schiavistiche sono molteplici: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, la privazione della libertà per debiti, il matrimonio forzato, lo sfruttamento sessuale, la vendita e lo sfruttamento dei bambini.

Fornire una misura quantitativa affidabile della schiavitù moderna è un’impresa tutt’altro che semplice – considerando che si tratta di un fenomeno “nascosto”, difficilmente individuabile e quasi mai segnalato o denunciato – e anche per questo esposta a critiche.  Piuttosto feroci quelle contenute in un recente articolo del The Guardian ,  riguardanti, tra l’altro,  la definizione adottata dallo studio dell’organizzazione australiana, che sarebbe troppo generica e che,  oltre a cambiare da un anno all’altro, non permetterebbe di dare solide basi alla quantificazione e alla comprensione del fenomeno.

Ma analizziamo meglio i contenuti del rapporto. I paesi esaminati sono 167, Italia compresa, e gli schiavi nel mondo sarebbero 35,8 milioni, sparsi in tutti i continenti, nessuno escluso. Ad aggiudicarsi il triste primato di paese con il maggior numero di schiavi è l’India, con 14 milioni di persone sottoposte a sfruttamento. Seguono la Cina, con 3,24 milioni, e il Pakistan, con 2 milioni. In questa mesta classifica, in quinta posizione, troviamo, con 1,05 milioni di schiavi, la Russia, che, secondo il rapporto, rappresenta un centro nevralgico nella complessa rete dello sfruttamento e del traffico di esseri umani.

Se guardiamo invece alle persone schiavizzate in proporzione alla popolazione totale, la classifica cambia e al primo posto troviamo la Mauritania, dove, per effetto di un sistema profondamente radicato di schiavitù ereditaria, si stima che il 4% della popolazione sia coinvolto dal fenomeno, seguita dall’Uzbekistan, con il 3,9%, e da Haiti, il paese più povero del continente americano, con il 2,3%. Secondo il Global slavery index, l’Italia è al 151° posto, dopo gli Stati Uniti e prima della Germania, con 11.400 persone ridotte in stato di schiavitù, circa lo 0,019% della popolazione. 

I dati e le stime presentati nel rapporto sono stati oggetto di diverse critiche, spesso anche impietose, in merito alle metodologie utilizzate per la loro costruzione. Sempre il The Guardian si è lanciato in un’invettiva contro lo scarso rigore delle procedure implementate. In particolare, al giornale britannico appare piuttosto bizzarra la decisione di produrre statistiche su 167 paesi pur disponendo soltanto di rilevazioni basate su indagini condotte in 10 paesi, unite a dati estratti da fonti esterne per altri 9 paesi. Le stime prodotte non sarebbero dunque robuste, ma basate su estrapolazioni caratterizzate da un ampio grado di arbitrarietà.

Non solo. È stata anche ampiamente criticata la scelta di raggruppare i diversi paesi in sei gruppi, poiché ritenuta scientificamente non rigorosa. Appaiono per lo meno curiose le scelte di inserire l’Egitto nel raggruppamento dei paesi ad “alto reddito”, o di considerare identica la percentuale di schiavi in paesi molto diversi come la Thailandia e il Brunei. La Cina, invece, i cui dati, come riconosciuto dallo stesso rapporto, sono scarsi e poco affidabili, è stata inserita in un raggruppamento di paesi asiatici come Corea del Sud, Giappone e Taiwan, con cui avrebbe, secondo il The Guardian, ben poche similitudini.

In sintesi, le statistiche del rapporto sarebbero inaffidabili, diffuse più per ragioni di “sensazionalismo” e con lo scopo di accaparrarsi consensi e accesso senza restrizioni all’elite mondiale della filantropia: “Da Clinton a Blair, da Bono a Branson”. Sempre secondo il The Guardian, il rapporto non si interroga minimamente sui reali meccanismi che portano al perpetuarsi dello sfruttamento e a forme di paraschiavismo e abbraccia una visione secondo cui la schiavitù riguarda solo “cattive persone che fanno cose cattive a persone buone”, con il risultato di “mantenere in piedi l’esistente struttura della disuguaglianza”. In realtà, occorre tener presente che la schiavitù è difficile da estirpare, poiché, oggi come ieri, rappresenta un vero e proprio business: secondo l’International labour organization (Ilo), i profitti derivanti dal lavoro forzato sono di circa 150 miliardi di dollari ogni anno.

Insomma, sebbene possa risultare antica ed evocare eventi lontani oramai secoli, la parola “schiavitù”  è drammaticamente attuale.  Persone considerate proprietà di altre persone, oggetti e non soggetti di diritto, esistono ancora e non vivono solo in paesi remoti e sconvolti da guerra e povertà. Anche in Italia si sente parlare di nuove forme di schiavitù, le cui vittime sono soprattutto segmenti della popolazione straniera. Pochi giorni fa è iniziata con questa frase la presentazione del libro “Ghetto Italia-I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento”, scritto dal leader della rivolta nel ghetto di Nardò contro il caporalato nel 2011: “Nonostante la schiavitù sia stata abolita, persistono nelle campagne italiane schiavi e schiavisti che in silenzio e nascosti da tutti rendono il lavoro una realtà parallela al sistema italiano”.

Così come persistono Rosarno e i suoi schiavi invisibili, i braccianti indiani della provincia di Latina drogati per lavorare o le 5mila donne rumene che lavorano nei campi di Ragusa e vivono segregate subendo ogni genere di violenza, sessuale e psicologica. Forse, dunque, non è del tutto corretta l’affermazione di Bill Gates secondo cui se non misuri il problema, questo non esiste. Il problema, purtroppo, esiste anche se la metodologia per definirlo e misurarlo non è (ancora) rigorosa.