Per anni, non ho potuto cancellare le esperienze vissute e le immagini viste al mio primo arrivo a Kigali, il 9 agosto 1994, solo poche settimane dopo la fine del genocidio del Ruanda. Anche in conferenze e seminari, davanti a un pubblico composto principalmente da scolaresche, scoppiavo in lacrime e piangevo singhiozzando, fino al punto da non poter proseguire il mio intervento. L’ultima volta che è successo è stato nel mese di maggio scorso a Roma, a Palazzo Valentini.

Eppure, come tanta gente in Africa e nel resto del mondo ho avuto delle esperienze personali molto pesanti, come la morte di un figlio a quarantacinque giorni dal suo 19mo compleanno, o la morte mio padre, ucciso perché uno stregone aveva detto ad Ahmed Sékou Touré, il dittatore che ha imposto alla Guinea, il mio paese di origine, un regime spietato, di sacrificare un certo numero di persone con la pelle chiara. Ma del Ruanda non riesco ancora a parlare liberamente.

Ci sono tornato quest’anno, all’inizio del mese di luglio scorso, proprio per cercare di attenuare l’effetto che aveva su di me ciò di cui sono stato testimone. Al mio arrivo, già dall’aeroporto, mi sono reso conto che avevo perso troppo tempo, perché non c’era nessuna medicina migliore per smussare l’immenso dolore che mi attanagliava. Nel 1994, sono sceso dall’aereo militare dell’Onu all’aeroporto di Kigali, in buona parte distrutto, con segni di pallottole che si vedevano ovunque, in un assordante silenzio si udivano soltanto il cinguettio degli uccelli e il crepitio delle ricetrasmittenti del personale dell’Onu. Erano i soldati americani a svolgere le pratiche d’immigrazione. Quello che era rimasto dell’amministrazione dello stato ruandese era rappresentato da un funzionario sui venti anni che prendeva i nomi delle persone che arrivavano nel suo paese.

Questa volta, invece, sono sceso su un asfalto pulito con delle righe bianche, al posto dei calcinacci e del sangue. Il tutto in una pulizia accecante, come in un qualsiasi aeroporto internazionale. Al controllo passaporti ho porto il mio passaporto italiano all’agente, una bellissima signora. Quando ha cominciato a sfogliarlo le ho detto che non avevo il visto. Mi ha gentilmente spiegato che si lo poteva chiedere anche su Internet, tre giorni prima di arrivare. Ha aggiunto che, poiché non avevo fatto come richiesto dalle autorità, era spiacente ma non poteva concedermi il visto. Quando, con gli occhi pieni di lacrime, le ho spiegato il motivo del mio viaggio, mi ha sorriso e detto che andava a spiegare la mia situazione al suo capo. In nemmeno di 5 minuti, era di ritorno con il visto già sul mio passaporto. Contrariamente al mio primo arrivo nel 1994, questa volta lo stato ruandese c’era e anche con una certa dose di umanità.

Varcata la soglia della hall dove si riconsegnano i bagagli, al posto del silenzio c’era la pubblicità che proponeva ai turisti ogni tipo di servizi, la gente che si muoveva in tutte le direzioni, chiacchierando, ma con una certa dignità. Gli uccelli non si sentivano più. Mi sono ritrovato in un taxi. Alla mia domanda di quanto avrei pagato, l’autista mi ha guardato con un aria quasi risentita. Mi ha spiegato che la tariffa era unica, nel senso che non c’era bisogno di trattare prima di partire.

Dall’aeroporto all’albergo,
la strada era tutta nuova, piena di cartelloni pubblicitari, non aveva niente in comune con quella che avevo conosciuto 18 anni prima. Era una superstrada di una pulizia rara in Africa, con un traffico intenso. Nel 1994, si vedevano soltanto i veicoli della Cicr, di Medici senza frontiere o quelli delle Nazioni unite con le bandiere che sventolavano al vento, oltre i branchi di cani randagi, panciuti, che si rincorrevano nelle strade. L’albergo, nuovo e modernissimo, aveva negozi e vari servizi. Che contrasto con la mia prima visita in questa città! Allora, avevo dovuto dormire con altri 3 capi servizio per terra nell’ufficio di un collega, senza acqua corrente. L’unico albergo era il Méridien Umubano. Una struttura seriamente danneggiata, in mano ai soldati del battaglione del Ghana della Minuar2. Tutte le porte erano state divelte, le finestre sventrate e i militari stanchi sdraiati ovunque. Questa volta all’Hotel Beau Séjour, preso possesso della mia camera sono uscito sulla terrazza per prendere un po’ d’aria. Non ci si poteva stare per il rumore del traffico, ma soprattutto dei numerosi cantieri che sorgevano ovunque.

Allora mi sono tornate in mente le statistiche che fanno di questo paese un vero miracolo in Africa. Sul piano economico un tasso di crescita che lo pone tra i primi paesi al mondo. Nella seconda metà del 2011, il tasso di crescita è stato superiore al 10 per cento. Dal 2005 al 2012, ha raddoppiato il suo prodotto interno lordo. Secondo dati della Banca mondiale, per creare un’azienda occorrono solo 3 giorni, il Ruanda è tra i primi paesi al mondo per la facilità di ottenere crediti per investimenti.

Sul piano sociale questo dinamismo ha avuto delle ripercussioni positive. La riduzione della mortalità dei bambini sotto i 5 anni è la più veloce di tutta l’Africa, con il 9,6% all’anno. Per quanto riguarda la scolarizzazione, il paese è arrivato al 92%. In alcune stagioni scolastiche, le bambine che vanno a scuola sono più numerose dei maschietti. L’accesso all’acqua potabile ha raggiunto circa 75 per cento della popolazione. E quasi un ruandese su 2 ha il proprio telefonino.La capacità del Ruanda di attrarre investimenti è dovuta anche all’efficacia registrata nella lotta contro la corruzione. Da anni il Ruanda è classificato tra i paesi meno corrotti in Africa. Nella regione dell’Africa orientale è il meno corrotto in assoluto, secondo il rapporto The 2012 East African Bribery Index.

Il governo ruandese sta cercando di diventare leader regionale nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Nel 2007, ha annunciato ufficialmente il suo impegno a lavorare del progetto “One Laptop per Child”. Un progetto che sta avanzando di anno in anno con la dotazione di un certo numero di computer in varie scuole scelte in modo da coprire tutto il paese.

Nel 1994, l’elettricità come l’acqua e tutti i servizi erano al collasso, oggi durante tutta la notte la città di Kigali è piena di luci. Mi è sembrata pure abbastanza sicura. Molte donne che guidano il taxi di notte. Ad una che è venuta a prendermi dopo mezzanotte, ho chiesto se non aveva paura. Ha riso dicendomi che la città era sicura.

Durante i giorni successivi al mio arrivo, ho visitato diversi quartieri di Kigali per vedere com’erano cambiati dalla mia prima visita e dopo la mia partenza alla fine del 1996. Il numero delle strade in buone condizioni o degli edifici nuovi di zecca è impressionante. All’Hotel 1000 colline, 18 anni dopo, uno degli inservienti mi ha riconosciuto. Sono stato tra i primi clienti dopo il genocidio. Abbiamo evocato quei tempi difficili, quando l’albergo non aveva né acqua corrente, né luce e il ristorante era chiuso, il cortile ancora pieno di tracce di sangue, la piscina di melma. Oggi è un complesso alberghiero di livello internazionale con tutti i servizi ultramoderni. Il turismo è in forte crescita grazie all’aumento delle capacità ricettive e potrebbe in un prossimo futuro diventare la principale fonte di valuta estera.

Continuando questa specie di pellegrinaggio, noto che dove prima c’era sterpaglia, oggi ci sono moderne strade. La zona di Kyovu, quella dove abitavo si è totalmente trasformata e ho dovuto chiedere più volte come arrivare a Rue de l’Akagera. Dove c’era un ristorante, ora c’è una scuola, la sede dell’Oms e di Msf non ci sono più. L’ambasciata del Canada, però, è ancora lì. Strano perché, le principali ambasciate sono quasi tutte su una strada che parte dal Méridien e va verso il Memoriale edificate per ricordare le vittime del genocidio. La villa dove abitavo, non è cambiata, ma gli alberi che avevo piantato sono cresciuti e formano una foresta in mezzo al quartiere.

Il posto più emozionante che abbia visitato insieme a vari gruppi di turisti è stato il Memoriale in ricordo delle vittime del genocidio. Il Kigali Memorial Centre è stato inaugurato nell'aprile 2004, in occasione del 10° anniversario del genocidio del Ruanda. Sono state raccolte e sepolte qui le salme di più di 250.000 persone. Vi ho incrociato turisti provenienti dagli Usa, dal Canada e dall’Irlanda. Tutti uniti dall’emozione e dal senso di sconforto, perché questo genocidio è avvenuto senza che nessuno abbia fatto niente per fermarlo.

La ripresa del Ruanda non sarebbe stata tuttavia possibile se non ci fosse stato un profondo sforzo politico per riconciliare le anime. Dopo che un paese ha subito quello che ha subito il Ruanda, una delle cose più urgenti da realizzare è la ricostruzione dell’unità nazionale. Da una parte, le vittime non devono avere l’impressione che gli autori di fatti di sangue godano di impunità, e dall’altra non si può giudicare individualmente tutti quelli che hanno partecipato ad azioni riprovevoli. In Sud Africa, il Premio Nobel Monsig. Desmond Tutu ha inventato la Commissione Verità Giustizia e Riconciliazione. Il Ruanda ha rispolverato i tribunali tradizionali Gacaca. Dal 18 giugno 2002 al 18 giugno 2012, quando si sono stati ufficialmente chiusi, circa 2 milioni di persone hanno confessato le loro azioni durante il periodo del genocidio e il loro livello di partecipazione.

Non entro in altri aspetti della politica interna e anche regionale del Ruanda, non perché non li conosca o perché li condivida, ma perché l’Onu, la Fidh, Hrw, la Sadc e altre istituzioni più competenti se ne stanno già occupando.

*Abdoulaye Bah  è stato capo della sezione dei servizi generali e presidente di una commissione interna nella MINUAR2, la missione Onu in Ruanda dopo il genocido. Italiano di origine guineana, pensionato dalle Nazioni Unite, dirige il forum online per l'Associazione delle vittime di Camp Boiro e di tutti i campi di concentramento in Guinea, dove 50.000 vittime innocenti perirono sotto il regime dittatoriale di Sekou Touré. Si è sposato nel 1969 in Italia. Parla francese, inglese, italiano, spagnolo, serbo-croato, tedesco, pular di Guinea.