Al cospetto di un governo infaticabile, impegnato su lavoro, articolo 18, scuola pubblica, riforma elettorale e costituzionale a realizzare gli antichi sogni della destra, l’opposizione appariva demotivata, oggettivamente arruolata con le sue stanche truppe nel Partito Unico della Nazione. Due erano le armi rimaste al fronte conservatore per mostrare almeno una timida presenza: la lotta all’immigrazione e la retorica anti tasse. Renzi ha provato a sottrargli anche quelle, a cominciare dall’emergenza immigrati. Ma la sua proposta di bombardare i gommoni non ha avuto seguito. Si è sgonfiata per manifesta assurdità.

Anche la minaccia di maniere forti in Europa ha lasciato tutto come prima. Non gli è rimasto allora che rubare agli avversari politici l’altra carta, con l’annuncio di giganteschi tagli delle tasse mai effettuati nella storia repubblicana. L’idea di società che il governo coltiva è palese: la commercializzazione dei diritti. Con misure demagogiche, e il riciclaggio di proposte che in passato hanno avuto una qualche attrattiva elettorale, si smantellano le condizioni dell’universalità dei diritti di cittadinanza, la copertura dei servizi pubblici e si affida al mercato la cura, l’istruzione, i trasporti.

A quei ceti possidenti che già ora non pagano le tasse, e hanno risorse nascoste per procurarsi prestazioni e servizi privati o per ricorrere a quelli pubblici senza contribuire lealmente al loro finanziamento, il governo fa un ulteriore favore: l’abolizione dell’Imu anche alle case di gran pregio (l’unica tassa che anche gli evasori benestanti pagano). Una cosa tuttavia è evidente. Senza un recupero dell’evasione, una lotta all’economia nera, sommersa e illegale, senza un contrasto alla penetrazione sistemica della criminalità organizzata nell’economia e nelle amministrazioni locali, il piano triennale di riduzione delle tasse postula la cancellazione degli spazi pubblici, la contrazione della spesa sociale, l’inasprimento delle tassazioni comunali per recuperare fondi tagliati, l’incremento ulteriore del deficit e del debito.

Quello che Renzi ha annunciato, prendendosela con “la tribù dei musi lunghi”, non ha i tratti di un intervento capace di incidere sui nodi strutturali dell’economia italiana. È solo il tentativo disperato di reagire alla visibile perdita di consenso con le carte della demagogia. Il populismo di governo non è mai la soluzione ai problemi, ma comporta un ulteriore aggravamento della crisi. Le risorse pubbliche scarse andrebbero orientate a politiche per il lavoro giovanile, a fondi per la manutenzione delle città, per la riqualificazione dei servizi essenziali, per l’ammodernamento della scuola, per il rilancio della ricerca. Di queste cose non c’è traccia nell’agenda di governo. Ciò perché il governo della narrazione è una simulazione di decisione, è un intrattenimento.

Sabino Cassese ha scritto sul Corriere della Sera che Renzi, quanto a stile di governo, adotta una “ad-hoc-crazia”, che palesa una scarsa conoscenza dell’arte del governo, una dose evidente di improvvisazione, una sacca di inesperienza “nella padronanza dei dossier”, una predilezione per lo stile comico nella comunicazione politica. La sua scommessa è di lucrare un qualche margine di flessibilità nei conti dall’Europa tecnocratica, offrendo in cambio non già politiche pubbliche ponderate, ma lo scalpo del sindacato, dei diritti, della Costituzione.