Rai, Poste italiane, Telecom: tre aziende all’ordine del giorno, le cui vicende lasciano intravvedere molta confusione e poca trasparenza rispetto alle prospettive future. Di questo, è convinto Massimo Cestaro, segretario generale dell’Slc Cgil, che ne ha discusso stamattina ai microfoni di Italia parla, la rubrica quotidiana di RadioArticolo1.

“Partiamo dal canone Rai – ha esordito il dirigente sindacale –: se va nella bolletta elettrica, secondo le intenzioni del Governo, bisognerebbe dire che si tratta di maggiori finanziamenti al servizio pubblico. Ma se l’operazione è fatta per abbassare le tasse, vorrei capire qual è l’equità tra i contribuenti a tal fine, perché mi stupirebbe che i pensionati collaborino tutti a ridurre le tasse al sistema d’impresa. Secondo la Legge di stabilità 2016, poi, si scopre che attraverso il meccanismo del canone in bolletta, di cui vorremmo capirne di più, verrà messa una cifra non definita che andrà a ripianare i costi dello Stato. Ma qui c’è un elemento di non chiarezza nei confronti degli utenti e poi rischiamo che venga meno il rapporto tra Governo e azienda pubblica sul piano dell’autonomia, che è tema di natura costituzionale. Questo ci preoccupa molto, assieme alla questione più complessiva della riforma Rai e dell’assetto della sua governance. Non vorremmo che tutto andasse a finire come l’anno scorso, quando Renzi annunciò che avrebbe riformato il canone, ma poi non se ne fece più nulla, se non che aumentò l’evasione. Ora la diffidenza è lecita, e molti cittadini si chiedono se con il canone in bolletta pagheranno davvero di meno, oppure il rapporto costi-benefici sarà sempre a loro sfavore. Il dubbio è legittimo, perché quella che è la più grande industria culturale del Paese ha bisogno di finanziamenti, se vogliamo mantenerla sul mercato. Se si sottrae il canone, o si riempiono i palinsesti di pubblicità, sul modello delle emittenti private, o si fa un grande intervento sull’innovazione tecnologica, che però richiede risorse certe sul piano delle entrate. Su questo punto, abbiamo già chiesto un incontro con la dirigenza Rai, anche per capire quali saranno le ricadute dell’operazione in termini occupazionali e soprattutto di prospettive”.

Su Poste italiane, l’esponente Cgil si è soffermato sulla privatizzazione e sulla quotazione in Borsa del gruppo. ”Dove sono andati a finire i 3 miliardi e mezzo, frutto delle entrate derivanti dalla vendita di azioni? L’azienda e i cittadini in coda negli uffici postali ne trarranno dei benefici? Se il debito pubblico si aggira attorno ai 2.000 miliardi, non è che quell’uno per mille, scaturito dalla privatizzazione di Poste, possa risolvere il tema del bilancio dello Stato, mentre quei soldi reinvestiti all’interno del gruppo possono garantire la qualità del servizio che si attendono gli utenti. Con una serie d’iniziative pubbliche, abbiamo chiarito la nostra posizione sui criteri con cui debba essere effettuata la privatizzazione. Occorre anche un piano di riorganizzazione delle attività di Poste, un gruppo complesso, con un insieme di aziende eccellenti che stanno sul mercato e una rete informatica straordinaria, che può essere un partner interessante per l’insieme della pubblica amministrazione, a patto, però, che si facciano investimenti per il suo efficientamento. La cosa più importante è che Poste continui ad essere un’azienda del sistema Paese, offrendo un servizio pubblico di qualità ai clienti-utenti, oltre 30 milioni tra lavoratori, pensionati, artigiani, piccole e medie imprese. Ma l’operazione di chiusura di uffici postali, con tagli molto pesanti alle attività di sportello, va nella direzione opposta, e fanno bene i sindaci a protestare: noi sindacati stiamo con loro, perché Poste rischia di perdere l’elemento che è la sua forza, quello di offrire un servizio di prossimità a tutti. Pensiamo che vada riconfigurato anche il servizio di recapito sul territorio, perché è vero che si spediscono sempre meno lettere, ma di contro aumenta l’e-commerce, cioè la distribuzione di pacchi. Di recente, abbiamo fatto un accordo che va in tale direzione”.

Infine, per quanto riguarda Telecom, “si tratta di una storia complicatissima – ha precisato il leader Slc –: la privatizzazione del gruppo è stata un disastro, la peggiore in assoluto. La questione non è l’assetto proprietario, perché anche adesso siamo in presenza di investitori internazionali, ma quello delle prospettive di sviluppo che un’azienda del genere deve avere, con investimenti mirati sul potenziamento della fibra ottica e quindi delle reti di nuova generazione, sostanzialmente funzionale ad ottenere un sistema di servizi diverso e migliore di quelli che abbiamo oggi, in particolare sulla televisione del futuro, che viaggerà su fibra. Per fare ciò, bisogna costruire sinergie tra le grandi aziende di telecomunicazione e quelle produttrici di contenuti. Inoltre, è importante che vi siano gruppi europei forti, anche con forme di collaborazione in joint venture, che riescano così a competere a livello mondiale. Quindi, se vi fosse l’intenzione di costruire un importante gestore di reti tra Italia e Francia, tra Telecom Italia e Orange, noi non saremmo contrari. Il tema delle sinergie, però, deve essere posto con chiarezza, cosa che il Governo non sta facendo, e siamo di fronte a forme di contendibilità del pacchetto azionario di un’azienda strategica per il Paese, senza che siano chiare le prospettive. L’ultimo incontro che abbiamo avuto al ministero dello Sviluppo economico ha riguardato solo gli esuberi di personale - concluso con accordi separati tra noi e Cisl e Uil -, questioni che spetterebbero al ministero del Lavoro, non al Mise. C’è bisogno di un nuovo piano industriale per rilanciare l’azienda, indicandone le linee prioritarie di sviluppo, soprattutto per evitare che Telecom finisca per l’ennesima volta preda di azioni speculative, da parte di grandi finanzieri senza scrupoli. Ma di tutto questo, finora, non vi è traccia”.