Che i sistemi democratici non godano in generale di buona salute in tutte le parti del mondo, è ormai diventata un'opinione comune. Si tratta di una crisi di portata storica, caratterizzata in primo luogo dallo spostamento sostanziale di rilevanti poteri decisionali al di fuori dell'orbita delle istituzioni elettive, specie quelle di carattere nazionale, in sedi e forme più occulte, nelle quali giocano un ruolo chiave i grandi poteri economici e finanziari. In parallelo a questo fenomeno di espropriazione, si determina nei singoli Paesi un inedito corto circuito tra società e Stato, tra rappresentanza sociale e luoghi, momenti, sedi della decisione istituzionale.

Nelle moderne democrazie dell'Occidente è stata per molti anni la politica, incarnata soprattutto dai partiti politici, a farsi carico di mediare tra società e Stato, tra domande sociali e scelte politico-istituzionali. Ed erano i soggetti organizzati nella società, i corpi sociali, tipicamente ma non solo i sindacati, a contribuire a questa complessa mediazione, offrendo – grazie alla propria capacità di rappresentanza – un primo filtro e una prima elaborazione di quelle domande sociali.

Ormai da tempo, però, questo schema di gioco non funziona più. Il triangolo tra partiti, società e Stato, che nei momenti migliori si poteva rappresentare – cito Piero Ignazi – come un triangolo amoroso, oggi non lo è più. È un triangolo “attraversato da contrasti e incomprensioni”. È un “triangolo rotto”. In questo contesto è opportuno leggere la crisi delle rappresentanze sociali, che accomuna non a caso tutti i Paesi occidentali e di cui fa parte anche la crisi delle rappresentanze sindacali.

Una crisi che nel caso del sindacato italiano si manifesta non tanto con un calo dei tassi di sindacalizzazione, quanto piuttosto – come hanno scritto recentemente Mimmo Carrieri e Paolo Feltrin – in una difficoltà crescente «a tenere insieme dentro una sintesi condivisa le tante ragioni di un mondo del lavoro divenuto più eterogeneo ed esigente». La crisi della rappresentanza sociale è inoltre parallela a quella, per certi aspetti ancora più grave, almeno nel caso italiano, della rappresentanza politica. I partiti che oggi abbiamo di fronte somigliano sempre meno alla loro declinazione novecentesca. Quella era una forma-partito caratterizzata, al di là del numero degli iscritti, da due elementi sostanziali: da un lato una forte articolazione territoriale e dall'atro, connessa a questa, la ricchezza di “sensori” sociali, capaci di veicolare in tempo reale – e in modo autonomo rispetto ai mass-media – informazioni e notizie sugli stati d'animo, gli orientamenti e le opinioni che si muovono nel corpo profondo della società.

I partiti di oggi hanno in gran parte perduto entrambe queste caratteristiche. Assistiamo in molti casi ad un revival delle forme-partito dell'Ottocento: formazioni politiche frutto di aggregazioni più o meno contingenti (e a volte estemporanee) di parlamentari e, sul territorio, comitati elettorali che vivono soprattutto in funzione di qualche specifica scadenza di voto. In tutti questi casi appare evidente lo schiacciamento del partito sul livello istituzionale, a scapito della sua capacità di interpretare e rappresentare istanze di natura sociale.

L'indebolimento della funzione di filtro svolta in passato dalle rappresentanze sociali e politiche modifica sostanzialmente le relazioni tra domanda sociale e soggetti della decisione istituzionale. Le domande sociali si riversano più direttamente, senza mediazioni preliminari, sul decisore istituzionale. Il quale, non potendo certo soddisfare la vastità delle domande propria di una società complessa, è spinto ad imboccare la strada pericolosa della semplificazione. A cui non è alternativa, ma anzi complementare l'attribuzione di una rilevanza sempre maggiore all'azione di lobbying messa in campo, qualche volta alla luce del sole e più spesso in modo occulto, dai diversi portatori di interesse.

Ovvio che il sindacato si trovi in questo quadro di fronte a grandi ed inedite difficoltà. In particolar modo un sindacato come la Cgil, cresciuto con l'ambizione di essere nello stesso tempo parziale, perché rappresentativo di un punto di vista particolare, quello del mondo del lavoro subordinato, ma anche generale, perché aspira a far vivere quel punto di vista dentro un processo di crescita e di cambiamento capace di dare risposta a fasce molto più ampie di società. Questo è un ruolo che è possibile esercitare, appunto, se esiste uno spazio, tra società e Stato, nel quale realizzare sintesi, compromessi e mediazioni tra interessi diversi.

Se quello spazio si restringe, o scompare, ciascuno degli interessi in campo è spinto ad esaltare la propria parzialità, i propri interessi più corporativi, mettendoli magari in contrapposizione, in conflitto con quelli di cui altri soggetti si fanno portatori. Qui è il nodo. E il primo rischio che si può correre è quello di sottovalutare la portata di questo cambiamento, ritenendo che si tratti semplicemente del frutto di scelte politiche contingenti del governante di turno, in quanto tali facilmente reversibili. Le scelte del governante di turno ovviamente pesano, ma ancor di più quando, come accade in molti casi, quello italiano compreso, sembrano assecondare processi che hanno un'origine più complessa e più profonda.

Non basterà quindi che passi, ancora una volta, la nottata. Il sindacato è obbligato quindi a ripensare gli strumenti, i canali attraverso i quali esprime la propria influenza sulle scelte e le decisioni di carattere generale. Il canale d'influenza che passa attraverso i partiti ha ormai un'efficacia imparagonabile con quella di altre fasi storiche. Non solo perché non esistono più grandi partiti che facciano davvero, al di là di qualche affermazione occasionale, del legame con le istanze del mondo del lavoro il loro principale tratto identitario. Non solo perché l'idea stessa della centralità del lavoro, come asse portante dell'ordinamento sociale e civile, che pure sopravvive nel dettato costituzionale italiano, è ormai da tempo smarrita nelle costituzioni materiali, nel discorso pubblico e nelle concrete scelte normative di tutto il mondo occidentale, di fatto sostituita da una implicita o a volte anche esplicita centralità dell'impresa. Ma anche perché è lo stesso strumento partito ad aver subito un processo di trasformazione che l'ha portato ad essere qualcosa di diverso, molto più debole e meno adatto per essere utilizzato a questo scopo.

Benché non possa essere totalmente abbandonato, dunque, il canale d'influenza che passa attraverso la mediazione partitica non ha e non avrà più né la continuità né la forza conosciuta in altri momenti. Non si può d'altra parte certo dire che anche il canale diretto di pressione sui livelli istituzionali non abbia subito, per il sindacato, profondi mutamenti, tali da rendere molto più complesso il conseguimento di risultati apprezzabili. Si sono rarefatte infatti le sedi nelle quali è possibile discutere preventivamente le decisioni di chi governa. E inoltre sovente neppure una forte capacità di mobilitazione sociale basta più, da sé, a rappresentare lo strumento attraverso il quale influire davvero sulle scelte dei governi. A meno che questa mobilitazione riesca davvero ad allargare il consenso oltre il recinto della tradizionale rappresentanza sociale del sindacato.

Il cambiamento, non transitorio, del quadro dei rapporti tra società e Stato costringe dunque il sindacato ad una nuova riflessione sulle sue strategie e anche sulle sue modalità d'azione organizzata. Se non si vuole rinunciare ad essere “sindacato generale” e finire con l'adagiarsi in un ruolo più aziendalista e corporativo, così come molti suggeriscono e vorrebbero, deve necessariamente cercare un rapporto più diretto con tutta l'opinione pubblica, con tutta la società e non solo con quella parte che tradizionalmente il sindacato organizza e cerca di rappresentare. È un sindacato che si sbilancia di più nel campo della politica? Certo, ma del resto diventa una strada obbligata se vuole occuparsi di temi generali e non solo del proprio ristretto ambito di rappresentanza.

È una concorrenza ai partiti? Forse, in parte, ma comunque a partire da un tipo di struttura, di radicamento e di ragione sociale diversi. In virtù dei quali il sindacato può essere un po' meno schiavo del breve periodo, perché non partecipa alle elezioni, ha altre forme di verifica del consenso, a partire dall'efficacia della sua azione negli ambiti suoi più caratteristici: l'attività contrattuale, prima di tutto, e la fornitura di servizi di tutela individuale. È un passo che ha come sbocco obbligato quello della costruzione di una vera e propria formazione politica? No, questa sarebbe in realtà una scelta al ribasso, inefficace perché destinata ad essere risucchiata nei processi in corso.

Cosa significa allora concretamente porre al centro della propria azione la volontà di parlare direttamente a tutta la società e all'opinione pubblica? Al di là delle teorizzazioni, è quanto la Cgil ha provato a praticare in questi mesi con la proposta di “carta dei diritti universali del lavoro” e con la raccolta di firme sui referendum abrogativi che ad essa sono connessi. Qui ritroviamo tutti gli ingredienti di un nuovo approccio. In primo luogo, una proposta frutto di un'elaborazione avanzata, a cui ha contribuito il meglio della cultura giuridica vicina alle istanze del mondo del lavoro. Soprattutto, una proposta costruita con la costante attenzione ad assumere un orizzonte che va oltre il campo della rappresentanza sindacale più consolidata: guardando ai giovani, al lavoro precario, agli immigrati, al lavoro autonomo o fintamente autonomo, alle nuove forme di sfruttamento lavorativo.

Poi, in secondo luogo, una proposta sperimentata e discussa non in un ambito ristretto, ma attraverso un confronto ampio, sviluppato in migliaia di assemblee nei luoghi di lavoro. E infine, l'utilizzo degli strumenti di democrazia diretta disponibili nel nostro ordinamento: la legge d'iniziativa popolare e i referendum abrogativi. La novità importante non è, si badi bene, nell'utilizzo di questi strumenti. Non c'è alcuna abiura della democrazia rappresentativa a favore di quella diretta. La novità sta nella volontà di usare tutta la strumentazione disponibile per parlare all'insieme della società e per confrontarsi con essa. Nella determinazione con la quale si decide di uscire dalla riserva indiana nella quale si rischia altrimenti di rimanere confinati e verso la quale del resto sospingono importanti processi sociali, oltre che la volontà, il desiderio e le scelte di molti degli attori in campo.

Allude questo riposizionamento ad un ridisegno generale dei rapporti tra società e Stato, tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica? È presto per dirlo. Certo appare, nelle condizioni date, un riposizionamento quasi obbligato. Del resto, è chiaro che fare scelte di questo tipo spinge in un mare aperto, per tanti aspetti inesplorato, nel quale il metodo di una cauta ma rigorosa sperimentazione deve essere assunto come essenziale. Nella piena consapevolezza che, contestualmente, resta certamente indispensabile per il sindacato aggiornare e riqualificare la propria attività contrattuale, che continua - e non può che continuare - a costituirne la fondamentale ragion d'essere. E che la stessa cosa vale anche per la sempre più importante attività di fornitura di tutele a carattere individuale. Insomma, il cambiamento in corso nei rapporti tra lavoro, politica e sindacato ha la profondità dei grandi momenti di transizione.

Ed è uno dei tasselli attorno al quale si può determinare, in un senso o nell'altro, la via d'uscita dalla crisi che stiamo vivendo. Resto convinto, a differenza di quanto ci viene generalmente proposto dai dibattiti attualmente in corso su riforma costituzionale e legge elettorale, che ciò che qualifica un sistema democratico non è tanto la fredda misurazione delle posizioni in campo – chi vince e chi perde – quanto piuttosto la qualità del processo, le modalità inclusive e partecipative, o meno, attraverso le quali si giunge a una deliberazione, l'equilibrio che si è in grado di realizzare tra l'esigenza di arrivare ad una decisione e quella di comporre in modo trasparente interessi diversi, a volte anche confliggenti tra loro. Qui sta lo spazio delle rappresentanze sociali, in particolare della rappresentanza del lavoro. E qui sta il suo nesso, profondo, con le sorti generali dei nostri sistemi democratici.

Giuliano Guietti è presidente dell’Ires Emilia Romagna