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“Noi dicemmo di no”. Fulvio Cerofolini, ex sindaco socialista di Genova, nei giorni caldi del luglio 1960 è segretario della Camera del lavoro. La mobilitazione contro l’annunciato congresso del Msi in città, gli operai del Ponente e i partigiani che tornano nelle strade, l’effervescenza degli studenti, cosa rara per quel tempo, sino alla giornata decisiva del 30 giugno, la manifestazione dei centomila, Piazza De Ferrari, i portuali e i ragazzi delle magliette a strisce, gli scontri furibondi con la Celere: tutto questo lui lo ha visto e vissuto da protagonista.
Il 1° luglio, con gli altri dirigenti del sindacato e delle associazioni, in prima fila gli uomini della Resistenza, è in prefettura, ad ascoltare la proposta di compromesso: “Voi vi fate la vostra manifestazione a Sampierdarena, il Msi tiene il suo congresso a Nervi”, azzarda il prefetto. “Scattammo tutti insieme, dicemmo di no”, ripete Cerofolini raccontando la rivolta antifascista della sua città, le giornate che dànno l’avvio alla sollevazione contro il governo Tambroni, nel primo degli appuntamenti che hanno ricordato quei giorni, il convegno organizzato il 17 giugno a Roma dalla Fondazione Di Vittorio e dall’Anpi (sono venute poi, per dire di alcuni fra altri appuntamenti, le iniziative di Genova, culminate nel convegno del 30 giugno, la manifestazione di Porta San Paolo, a Roma, il 6 luglio, le giornate di Reggio Emilia, la scorsa settimana).
Il rifiuto e la richiesta, reiterata, di vietare il congresso del partito neofascista – torniamo a Genova – sono stati intanto accompagnati dalla proclamazione, per il 2 luglio, dello sciopero generale cittadino. Non ce ne sarà bisogno. All’una di notte il prefetto chiama la Camera del lavoro, il congresso è stato annullato. Genova non rischierà più l’onta del raduno neofascista; ma ancora non basterà, come sappiamo.
La provocazione neofascista
Tutto è cominciato in marzo. Fernando Tambroni, figura di secondo piano della Democrazia cristiana e, paradossalmente, della sinistra – della componente Dc più di tutte convinta della necessità di aprire ai socialisti – riceve l’incarico di formare il governo. Il primo ministero non passa. Giorgio Bo, Giulio Pastore e Fiorentino Sullo, visto il voto di fiducia determinante del Msi, si dimettono. Il presidente della repubblica Giovanni Gronchi affida il mandato a Fanfani, che però – stante l’opposizione ancora dura, nella Dc e fuori, verso ogni ipotesi di “apertura a sinistra”, come si diceva allora – rinuncia. Di nuovo in scena Tambroni, voto sempre determinante del Msi, il centrismo finisce ma l’esito immediato è una netta virata a destra che – visti i fantasmi che resuscita, solo quindici anni dopo il 25 aprile – appare anche, non solo nello schieramento progressista, come un salto nel buio.
Il Msi per giunta non si accontenta e annuncia la provocazione: il suo imminente congresso si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, dove i tedeschi sono stati costretti ad arrendersi direttamente nelle mani delle formazioni partigiane guidate dal comunista Remo Scappini. Di più, a presiedere l’assise, si fa sapere, sarà Carlo Emanuele Basile, prefetto della città ligure durante l’occupazione nazista, l’uomo che nel giugno del 1944, dopo il grande sciopero operaio che in primavera ha scosso il triangolo industriale del Nord Italia, ha organizzato la deportazioni di mille e cinquecento operai in Germania. Insomma un fascista dei peggiori, di nuovo in azione, seppure in abiti borghesi.
Genova respinge la provocazione ma non basta, dicevamo. Tambroni insiste e il clima si fa incandescente. Il 5 luglio a Licata, in Sicilia, la polizia spara su un corteo di lavoratori e disoccupati, uccidendo un giovane di 25 anni. Il 6 luglio, a Roma, i carabinieri a cavallo guidati da Raimondo D’Inzeo, medaglia d’oro nei giochi organizzati proprio nella capitale, caricano un corteo di antifascisti diretto a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza, dove subito dopo l’8 settembre del ’43 soldati e popolo si erano opposti all’ingresso dei tedeschi in città. Il 7 luglio è l’eccidio di Reggio Emilia: i cinque lavoratori – Lauro Farioli, Marino Serri, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Afro Tondelli, come li scolpirà la canzone di Fausto Amodei – uccisi dalla polizia che spara ad altezza d’uomo. Verrà poi lo sciopero generale proclamato dalla Cgil l’8 luglio, e ancora altri quattro manifestanti colpiti a morte a Palermo e Catania.
Tambroni si dimetterà solo il 19 di luglio. Una lunga scia di sangue e un incubo infinito, prima che il centrismo lasci il campo, che si viri verso il centrosinistra, che ci si decida per una formula politica sicuramente più adatta a un paese che, con il miracolo economico, sembra entrato definitivamente nella modernità.
L’agonia del centrismo
Un brutto incubo che però non arriva casualmente. Una delle lezioni che dalle giornate del luglio ’60 si possono trarre, perlomeno una riflessione che viene subito spontanea, riguarda appunto la brutta agonia della formula centrista di governo, le ferite e i lutti che costò ai lavoratori. Tutto il tempo trascorso prima che non Tambroni ma la Dc si decidesse – nonostante il congresso di Firenze del 1959 e l’ascesa di Moro: Guido Bodrato, ex sinistra dc lo ricordava nel convegno romano –, l’asprezza dello scontro che ci fu, dicono bene di un paese in cui le forze reazionarie, per usare un termine desueto, erano disposte a qualsiasi avventura pur di salvaguardare i propri interessi. Lo stesso centrosinistra, del resto, oltre la primissima stagione, la scuola media unica e la nazionalizzazione dell’energia elettrica, non seppe andare. La riforma urbanistica di Fiorentino Sullo non passò, Sullo finì di fare politica, poi l’estate del ’64, Segni e De Lorenzo, e la spinta propulsiva del centrosinistra si esaurì.
Il peso della rendita, si dirà. Il peso della rendita e una storia che parla abbondantemente dell’Italia di oggi. Così come all’Italia di oggi – a quel che attualmente ancora fa fatica a crescere –, ci riportano i no di allora. Dicevamo di Cerofolini, e del no in prefettura. Cosa quel rifiuto significasse, i pericoli che quella scelta intanto comportava – pericoli pienamente avvertiti nel “costi quel che costi” del comizio genovese di Sandro Pertini, due giorni prima del 30 giugno – vale le pena raccontarlo con le parole piane pronunciate da uno scrittore, Paolo Nori, durante le giornate organizzate a Reggio per il cinquantenario della strage (tema di un romanzo dello stesso Nori uscito per Feltrinelli: Noi la farem vendetta). “Ecco (…) io in questo movimento, nel fatto di andare in piazza, nonostante la polizia avesse già reagito in modo violento nei giorni precedenti, nel fatto di andare in piazza proprio contro la violenza della polizia, che è stato quel che è successo a Reggio Emilia il 7 luglio del 1960, io ci leggo due cose, la prima è che questa piazza qui, la Piazza dei Teatri, e tutte le piazze e le strade e i viali di Reggio Emilia e di tutte le città dell’Emilia e dell’Italia e del mondo, sono di tutti; la seconda che non bisogna avere paura”.
E cosa significasse non aver paura Nori lo spiega parlando del nonno, un uomo che era bellissimo solo per lui, e per la nonna: a cui le amiche chiedevano di continuo perché mai avesse deciso di sposare un ragazzo che, insomma, tanto bello proprio non era. “Be’ mia nonna una volta me l’ha spiegato, perché aveva sposato mio nonno. C’era stato un furto e i carabinieri gli erano entrati in casa con le armi spianate per perquisirgli la casa, e Tuo nonno, mi ha detto mia nonna, li guardava in faccia come per dirgli E allora? Credete di farci paura? Non ci fate mica paura (…) aveva ragione mio nonno (…): Cosa ci possono fare? Ci possono ammazzare, ma non ci posson far del male”.
Un sereno dovere
Questo duro ma sereno dovere, il dovere di dire no, di non avere paura, è un sentimento che ha a che fare prima di tutto con la gioventù. E sono appunto i giovani – un altro motivo di riflessione – la bella e per molti inaspettata novità del luglio ’60 sessanta: le “magliette a strisce”, primo segnale, in Italia, di una rivolta che nelle forme più diverse, sino all’anno degli studenti, al ’68, e poi all’autunno caldo del ’69, le nuove leve operaie affluite nella fabbrica fordista, attraverserà l’intero decennio 60. Nella sua relazione al convegno genovese, Paolo Arvati riporta un dato significativo.
“A Genova e poi in tutta Italia entra in campo una nuova generazione, la stessa troppo presto giudicata apatica e facile preda dei miti consumistici del tempo. Secondo fonti e testimonianze dirette, almeno metà dei centomila scesi in piazza il 30 giugno sono giovani tra i 17 e i 25 anni. Dei cinquanta arrestati durante gli scontri, quasi tutti manovali, piccoli artigiani, disoccupati, la metà ha meno di 25 anni. E per la prima volta (…) si muovono anche gli studenti universitari, seppur concentrati nelle facoltà scientifiche di S.Martino”.
I dirigenti dei partiti di sinistra lo videro subito. Presentando l’appuntamento di Porta San Paolo del 6 luglio, la Cgil di Roma e Lazio ricordava le parole di Giorgio Amendola (che poi la sinistra politica e fra i suoi leader sicuramente Amendola, qualche anno dopo, avrebbero fatto molta fatica a confrontarsi con la contestazione giovanile nulla toglie alla verità delle parole allora pronunciate): “Questi giovani avevano meno di cinque anni al momento della Liberazione, sono cresciuti in questa Italia clericale, corrotta e bigotta. Spesso c’è sembrato che ci giudicassero severamente o che ci sopportassero come rispettabili noiosi brontoloni. Eppure sono giunti all’appuntamento e hanno gettato nella nuova battaglia il patrimonio immenso delle speranze, degli ideali, dell’entusiasmo dei venti anni”. Il protagonismo dei giovani avrebbe avuto però più difficilmente voce senza il retroterra del lavoro e della sua principale organizzazione, la Cgil. Ancora una volta, come in tutti passaggi decisivi della storia nazionale, è il lavoro a dare il contributo più importante per andare avanti – e, dentro la storia del lavoro, un posto particolare spetta Genova: lo sciopero del 1900, gli scioperi del 1944, poi appunto il luglio ’60 –: lo ha ricordato Adolfo Pepe nel suo intervento al convegno romano del 17 giugno, poi Paolo Arvati e Fabrizio Loreto fra gli altri nel convegno genovese del 30 giugno. Con un’azione di lotta, sottolineavano, che non fu certo semplice tradurre in un movimento generale.
“Per tutta una prima fase – Arvati – almeno sino al 30 giugno, l’iniziativa è solo della Camera del lavoro di Genova e di altre realtà locali. (…) la Cgil nazionale entra direttamente in campo solo dopo l’eccidio di Reggio Emilia, con la proclamazione dello sciopero generale dell’8 luglio. Solo quando la situazione politica nazionale assume caratteristiche di straordinaria gravità, la Cgil decide di esercitare la propria forza fino in fondo”. In sintonia, continua lo storico – “con la concezione di Di Vittorio di un sindacato grande soggetto sociale che, per la difesa e la realizzazione della Costituzione, svolge anche un ruolo politico”. Un altro tra i principali motivi, l’impegno del lavoro e delle sue forze organizzate in tutti i passaggi cruciali della storia d’Italia, che la memoria del luglio ’60 e i convegni per il cinquantenario consegnano alla discussione odierna. Un impegno – inutile spendere ulteriori parole, le ragioni sono sotto gli occhi di tutti – a cui oggi si è ritornati con decisione.