Il progetto europeo “Going up the High Road. Rethinking the Role of Social Dialogue to Link Welfare and Competitiveness” coordinato dalla Fondazione Biagi e finanziato dalla Commissione europea ha offerto lo spazio per uno studio comparato per comprendere se e come politiche di welfare occupazionale disegnate nell’ambito del dialogo sociale possano coniugare flessibilità organizzativa e benessere individuale dentro una traiettoria di “via alta” alla competitività.

In generale il quadro che ne emerge non è confortante. In misura diversa ma comunque in forma evidente in ogni paese, il welfare occupazionale non risponde prioritariamente a strategie di progettazione organizzativa e laddove esistano esperienze con tale orientamento non sembrano rientrare dentro spazi di confronto tra le parti sociali.

Senza distinguersi in maniera rilevante dalla caratterizzazione europea, la condizione italiana presenta degli elementi di specificità. L’analisi, condotta congiuntamente da Ires Emilia Romagna e Università di Trento, ha infatti permesso di scandagliare la natura delle diverse forme di welfare occupazionale presenti in Italia come elemento integrativo rispetto alle altre tipologie di welfare sociale e fiscale secondo la ormai classica “Social Division of Welfare” (Titmuss, 1955). In Italia è possibile distinguere tre diverse forme di welfare occupazionale a cui sottostanno differenti approcci di dialogo sociale:

  • Gli schemi di welfare occupazionale previsti ed erogati nell’ambito della bilateralità locale e nazionale. Considerato il percorso bilaterale, tali schemi di welfare costituiscono la via partecipativa al welfare occupazionale (Leonardi, 2014);
  • Servizi di welfare aziendale e territoriale concordati tramite accordo collettivo di secondo livello. La natura pattizia consente di classificare queste forme come via contrattuale al welfare occupazionale (Pavolini et al. 2013);
  • Benefit aziendali il cui contenuto ed erogazione sono disposti unilateralmente dal management aziendale. Differentemente dalle altre due forme ed in base all’unilateralità decisionale, tali benefit sembrano rispondere più ad una logica di corporate social responsability (CSR) (Treu, 2013) che di relazioni industriali.

Il welfare occupazionale di origine bilaterale nasce e si sviluppa principalmente per porre rimedio ad una protezione sul lavoro particolarmente asimmetrica e frammentata. Il welfare di natura bilaterale sembra quindi più rispondere ad una logica di riequilibrio rispetto ad un welfare pubblico diseguale con il rischio però, paradossalmente, di aumentare la disuguaglianza alimentando una molteplicità di regimi di welfare su base settoriale o occupazionale: secondo un monitoraggio di Italia Lavoro (Leonardi, 2014) nel nostro paese si contano almeno 412 enti bilaterali nazionali o locali il cui funzionamento è regolato da contratti collettivi nazionali settoriali o intersettoriali.

La natura “compensativa” del welfare prodotto dalla bilateralità non crea i presupposti perché si rintraccino pratiche di dialogo sociale orientate a coniugare servizi di welfare e flessibilità organizzativa. Né tanto meno è possibile rintracciarle in un approccio orientato alla Responsabilità Sociale d’Impresa in quanto manca un percorso di condivisione con la rappresentanza dei lavoratori.

Le uniche forme di welfare occupazionale che potenzialmente potrebbero intercettare esperienze di sinergia con una riprogettazione delle forme di flessibilità organizzativa sono quelle prodotte dalla contrattazione decentrata (Gumbrell-McCormick, Hyman, 2013).

Ciò che è vero in linea ipotetica non sempre, però, trova riscontro nella realtà negoziale. Il monitoraggio condotto nell’ambito del progetto europeo sulla situazione italiana consente di tracciare alcune linee interpretative.

In primo luogo, gli accordi su base territoriale assumono spesso la forma di una dichiarazione di intenti in cui parti sociali e attori pubblici si impegnano a sviluppare nuove forme di welfare occupazionale applicabili ad un tessuto produttivo diffuso. In rari casi gli impegni formali si traducono anche concretamente dando vita ad accordi di implementazione, come le linee guida tracciate nel Protocollo di Treviso (2012) per introdurre “un sistema premiante avente contenuti economici e/o di welfare collegati ai risultati di impresa”, o accordi di rete, come IEP (Imprese E Persone -2009) che coinvolge più di 400 mila persone e GIUNCA (Gruppo di Imprese Unite nel Collaborare Attivamente) costituita da 10 imprese del Varesotto per lo sviluppo di nuove iniziative di welfare aziendale tra i loro dipendenti.

In secondo luogo, processi di contrattazione aziendale capaci di sperimentare un rapporto più dialogante tra servizi di welfare e organizzazione del lavoro incontrano resistenze di diversa natura:
  • una resistenza strutturale strettamente dipendente dall’estensione della contrattazione di secondo livello. Si stima che la contrattazione decentrata coinvolga circa il 30% della forza lavoro escludendo quindi quote maggioritarie di lavoratori dal beneficio di un welfare integrativo;
  • una resistenza culturale delle parti sociali rispetto alle direttrici del decentramento contrattuale e al protagonismo di fronte al welfare aziendale. Le diverse spinte del decentramento contrattuale in Italia, siano esse de-regolamentative (vedi “contratti di prossimità”) o coordinate (vedi “Testo Unico sulla Rappresentanza”), si riferiscono a diversi istituti contrattuali (schemi retributivi, orario di lavoro, prestazione lavorativa) ma non interessano mai esplicitamente i servizi di welfare. Allo stato attuale, dunque, anche un’estensione della contrattazione decentrata non favorirebbe un utilizzo del welfare aziendale più integrato alle scelte organizzative aziendali. Inoltre, nei casi analizzati è sempre il management a giocare un ruolo da protagonista nella proposizione di nuovi schemi di welfare, mentre la rappresentanza dei lavoratori difetta di proattività. A tal proposito, gli studi di caso mostrano come percorsi condivisi di welfare aziendale rendano il sindacato più attrattivo agli occhi dei lavoratori a più alto contenuto professionale, coniugando dimensione individuale e dimensione collettiva;
  • una resistenza istituzionale dipendente dal sistema di relazioni industriali in Italia. In un modello di rappresentanza a canale unico, dove poteri contrattuali e partecipativi ricadono dentro lo stesso organismo, le parti negoziali tendono a riportare ogni istituto contrattuale dentro la logica dello scambio, anche le pratiche di welfare aziendale. Continuare a guardare al welfare occupazionale come parte della dinamica retributiva o dentro uno schema di abbattimento del costo del lavoro ne limita gli spazi di interazione con l’organizzazione del lavoro;
  • una resistenza legislativa o meglio l’ambiguità con cui il panorama legislativo e fiscale italiano tratta ancora i servizi di welfare introdotti da un accordo aziendale. I riferimenti legislativi e fiscali si rifanno ancora al TIUR (Testo Unico delle Imposte sul Reddito, 1986) in base al quale le condizioni di vantaggio fiscale per l'utilizzazione delle opere e dei servizi di utilità sociale debbano essere sostenute volontariamente dal datore di lavoro. Questo fa sì che, assurdamente, il vantaggio fiscale venga meno se il beneficio è contemplato da un accordo collettivo portando molte imprese a negoziare “tacitamente” con le rappresentante sindacali per non violare il vincolo di “volontarietà” datoriale. Tale linea interpretativa è in stridente contraddizione con le previsioni in materia di previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa per le quali, al contrario, la contrattazione collettiva è prerequisito indispensabile per ottenere il vantaggio fiscale.

Gumbrell-McCormick R., Hyman R. (2013), Trade Unions in Western Europe – Hard Times, Hard Choices, Oxford University Press: Oxford, 2013.
Leonardi S. (ed) (2014), Rapporto sulla bilateralità nel terziario, Ediesse, Roma
Pavolini E., Ascoli U., Mirabile M.., (eds) (2013), Tempi moderni, Il welfare nelle aziende in Italia, il Mulino, Bologna
Treu T. (edit by) (2013), Welfare aziendale – Migliorare la produttività e il benessere dei dipendenti. IPSOA, Milano
Titmuss, R. M. (1976 1955), Essay on ‘The Welfare State’ (3rded), London: Allen & Unwin.