Nel 2010 il tasso di disoccupazione giovanile era ancora sotto il 30 per cento. Un dato elevato, ma non molto diverso dai valori toccati negli anni novanta. L’impennata maggiore è avvenuta proprio negli ultimi quattro anni: una fase in cui si è particolarmente accentuata, più che nel resto della popolazione, la difficoltà per le nuove generazioni nel trovare e mantenere un impiego di qualsiasi tipo. Questo dato sembrerebbe far attribuire alla crisi economica tutte le responsabilità della problematica situazione del nostro paese e delle opportunità che offre ai giovani. In realtà, il processo di marginalizzazione è iniziato ben prima.

Non a caso i primi dieci anni del XXI secolo sono stati definiti per l’Italia “il decennio perduto”, proprio per enfatizzare come la crescita economica sia stata, anche prima della recessione, molto più bassa sia rispetto al resto dei paesi avanzati, sia rispetto alle potenzialità che il paese può esprimere. Ma lo stesso decennio è stato anche quello in cui si è consolidata una condizione di svantaggio per la popolazione più giovane, tanto da trovarsi etichettata come “lost generation” e considerata la prima del dopoguerra che non riuscirà a migliorare la propria posizione rispetto a quella dei genitori. La minor crescita e competitività, da un lato, e la carenza di opportunità per i giovani, dall’altro, vanno considerate due facce della stessa medaglia. Senza adeguate politiche industriali e senza solido investimento in ricerca e sviluppo, il paese non è stato in grado di inserirsi nei più virtuosi percorsi di crescita di questo inizio secolo che hanno come motore propulsivo proprio lo specifico capitale umano delle nuove generazioni. Le stesse trasformazioni del mercato del lavoro hanno penalizzato soprattutto i giovani.

Ci siamo trovati a essere il paese che peggio ha coniugato flessibilità e sicurezza, rendendo più vulnerabili le nuove generazioni nella fase cruciale di impostazione e costruzione del proprio percorso professionale e di transizione alla vita adulta. È diminuita, in particolare, la possibilità di un accesso solido al mercato occupazionale a cui ha corrisposto l’espandersi di un’area grigia tra non lavoro e lavoro. Le riforme attuate, per funzionare, avrebbero dovuto, da una parte, fare in modo che l’area grigia guadagnasse margini sulla disoccupazione e non crescere a discapito della buona occupazione, e, dall’altra, prevedere strumenti di difesa dai nuovi rischi per evitare lo scadimento della flessibilità in precarietà di vita. Ciò non è avvenuto, con conseguente crescita di una condizione di intrappolamento e scoraggiamento che ha compromesso non solo la condizione dei giovani, ma anche quantità e qualità del loro contributo nel sistema produttivo. La crisi è poi intervenuta colpendo soprattutto l’area grigia, con la conseguenza che la precarietà si è trasformata sempre di più in disoccupazione vera e propria.

Ecco allora che molti giovani sono passati dal lamentarsi della non trasformazione del contratto a scadenza in un rapporto a tempo indeterminato, ad auspicare di veder rinnovata la collaborazione per un altro anno almeno. Assieme alla disoccupazione è molto cresciuta, posizionandosi su livelli tra i più elevati in Europa, anche la quota di Neet – i giovani che non studiano e non lavorano – arrivata a superare il 20 per cento degli under 30. Un dato che evidenzia come l’Italia sia uno dei paesi con più alta probabilità che un giovane sia passivamente dipendente dai genitori e un costo sociale, anziché una risorsa attiva per la propria crescita e quella del paese. Altro dato impressionante, che certifica l’incapacità italiana di valorizzazione dello specifico capitale umano delle nuove generazioni, è il basso tasso di occupazione dei giovani laureati. Nella cruciale età 25-29, che è quella in cui si dovrebbe già essere pienamente inseriti nel mercato del lavoro, negli ultimi quattro anni la percentuale di occupati è scesa sotto il 55 per cento, mentre la media europea è dell’80. Difficile trovare un paese in Europa in cui essere giovani e altamente qualificati valga così poco. Coerentemente con tutto questo, è interessante notare come la componente di italiani emigrati maggiormente cresciuta nel tempo sia stata proprio quella dei giovani più qualificati. L’incidenza dei cittadini laureati sul totale dei trasferimenti di residenza per l’estero è infatti più che raddoppiata: il valore per gli over 25, pari al 12 per cento circa nel 2002 è poi salito progressivamente, per poi, negli ultimi quattro anni, balzare sopra il 25 per cento.

Secondo il Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, circa il 45 per cento dei giovani studenti universitari prende in considerazione concreta la possibilità di cercare lavoro all’estero. Un dato confermato da una recente ricerca della Fondazione Istud, che mostra anche come, nel processo decisionale che porta a valutare l’opzione estero, l’Italia sia uno dei paesi in cui maggiormente prevale la fuga per la mancanza di opportunità rispetto alla mobilità come esperienza di arricchimento e confronto con altre realtà. A fronte poi di un 85 per cento di giovani che considera la propria generazione la ricchezza principale che il paese ha per tornare a crescere, una percentuale analoga vede però nulle o basse prospettive in Italia. Un ampio divario tra aspirazioni e possibilità di realizzazione, conseguenza del fatto che continuiamo a investire molto meno del resto d’Europa in formazione, nel sostegno all’intraprendenza e nelle politiche attive del lavoro. In particolare, per quest’ultima voce, negli ultimi quattro anni – in sostanziale continuità con i precedenti – abbiamo destinato circa la metà rispetto alle economie europee più avanzate. Non solo. Un’indagine condotta da Gallup nel 2011 rileva come i giovani italiani siano quelli che maggiormente lamentano un eccesso di vincoli e complicazioni nel realizzare una propria idea imprenditoriale (22 per cento conto una media europea del 13). In questi ultimi quattro anni – in cui si sono alternati governi di centrodestra, tecnici e di centrosinistra – si sono sommate le carenze delle politiche per lo sviluppo a quelle per il lavoro e di contrasto efficace alla crisi. Sono prevalsi gli annunci e le buone intenzioni ai fatti concreti.

Lo stesso fallimento dell’ultimo esecutivo Berlusconi e la breve durata di quelli retti da Monti e Letta, ben segnalano la difficoltà del paese a darsi una guida solida, autorevole e convincente nell’affrontare assieme alla crisi i nodi strutturali alla crescita. Alcune cose buone, in ogni caso, si sono provate a fare. Le misure principali del governo Letta per l’occupazione giovanile, in continuità con quello Monti, si trovano contenute nel decreto lavoro approvato dalla Camera il 7 agosto 2013. L’azione principale – oltre alla manutenzione dell’esistente e lo stimolo all’autoimpiego soprattutto nel Mezzogiorno – era costituita da incentivi nel breve periodo ad assumere e a stabilizzare under 30 appartenenti alle categorie sociali più svantaggiate. Nella direzione giusta, seppure in modo limitato, andava anche il finanziamento a favore dell’alternanza studio-lavoro e le agevolazioni per l’investimento in imprese innovative.

Si è cercato, a partire dal governo Monti e con interventi successivi, anche di potenziare gli ammortizzatori sociali, notoriamente carenti, soprattutto per i lavoratori più giovani lavoratori. Aspi e mini-Aspi hanno allargato la platea dei beneficiari dei sussidi di disoccupazione, ma è ben vero che continua a mancare una copertura universale legata a vere ed efficaci politiche attivanti. Nel complesso, gli interventi maggiori messi in atto negli ultimi quattro anni hanno adottato un approccio difensivo e di razionalizzazione degli strumenti esistenti, mentre più timida è stata l’azione in attacco. Misure, quindi, con l’obiettivo di contenere l’impatto sociale della recessione, ma meno in grado di incidere sugli ostacoli e i vincoli di fondo già presenti prima della crisi. La novità maggiore e più interessante su quest’ultimo versante è senz’altro lo Youth Guarantee. Una sfida lanciata dall’Europa, che è stata assunta come impegno dal governo Letta e confermata, pur con qualche ritardo e incertezza, da quello Renzi.

Come gli ultimi due governi, anche l’attuale ha dichiarato all’atto del suo insediamento di voler mettere il lavoro dei giovani al centro della propria agenda. Vedremo se dopo tante promesse e buone intenzioni mancate finalmente si riuscirà a vedere una discontinuità positiva nelle politiche per la crescita, che si occupino con maggior convinzione della valorizzazione delle capacità e competenze delle nuove generazioni. Il deludente decreto lavoro passato alla Camera il 24 aprile sembra avere come presupposto che un lavoro precario sia meglio di nulla. Si riuscirà così magari a ridurre la disoccupazione, ma con un alto rischio di tornare a espandere l’area grigia. Per ora, in attesa della delega che dovrà dare concretezza al Jobs Act, siamo ancora lontani dall’auspicato salto di qualità.

*Docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano