Ogni volta che in Italia sindacati e partiti della sinistra hanno tentato di costruire un’alternativa allo stato di cose presente, a quel “mondo è, mondo sarà” di cui parlava l’agrario a cui si opponeva Giuseppe Di Vittorio, è spuntata dall’ombra una qualche trama eversiva. Purtroppo dall’ombra sono arrivate le bombe e la strategia della tensione, e nell’ombra sono tornate, nonostante il lavoro pazientissimo di eroici magistrati. I misteri d’Italia si sono accavallati nel corso degli anni, anche se con qualche raro squarcio. Erano le 16,30 del 12 dicembre del 1969. Nell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano scoppiò una bomba ad alto potenziale che era stata posta, in una valigia, sotto un tavolo. Morirono 17 persone, 88 rimasero ferite. I più anziani, tra le vittime, avevano 71 anni. Il più giovane ne aveva 12 ed era uno studente, Enrico Pizzamiglio. Tutti gli altri erano commercianti, coltivatori diretti, impiegati che stavano in banca per svolgere i loro normali affari quotidiani.

Un’altra bomba, lo stesso giorno, sempre a Milano, venne rinvenuta nella sede della Banca Commerciale Italiana. Per fortuna rimase inesplosa. Neppure venti minuti dopo, questa volta a Roma, una bomba esplose in un sottopassaggio tra la centralissima via Veneto e via di San Basilio: i feriti furono 13. Tra le 17,20 e le 17,30 (sembra il giorno dei 13 e dei 17), altre due bombe esplosero nella capitale, una davanti all’Altare della Patria e un’altra poco distante da lì, in piazza Venezia, davanti al Museo del Risorgimento, causando altri quattro feriti.

Quel 12 dicembre del 1969 è stato il giorno delle bombe. Piazza Fontana è stata la madre di tutte le stragi, l’applicazione pratica in grande stile di quella che sarebbe stata definita la “strategia della tensione”. Ma se Piazza Fontana è stata il discrimine, non si può neppure dire – andando a rivedere le cronologie di quegli anni – che sia stata il primo episodio. Le bombe avevano infatti già fatto capolino in quel 1969, l’anno dei grandi scioperi, delle lotte dei metalmeccanici, l’anno che era cominciato con lo sciopero generale per le pensioni e che si concluse con la firma del contratto dei metalmeccanici, quello dell’autunno caldo, alla vigilia di Natale. Nei mesi precedenti c’era stato una specie di rodaggio dello stragismo con le bombe di Milano in aprile e otto attentati sui treni nel corso del mese di agosto.

Un anno destabilizzante. A gennaio c’erano stati attentati a Padova contro il rettore dell’università e contro il questore Bonanno. A marzo era stata costituita la Commissione parlamentare di inchiesta sul Piano Solo (il tentativo di colpo di stato del 1964), in aprile c’erano stati gli scontri e i morti a Battipaglia e il 25 aprile una serie di bombe ad alto potenziale erano esplose alla Fiera di Milano e alla stazione centrale. Il bilancio fu di una ventina di feriti e nessun morto. Anche le bombe sui treni, dell’8 agosto, non provocarono morti. Gli episodi furono otto. Una scia di attentati preparatori. L’anno si concluse con Piazza Fontana, che fu anche l’epilogo di una serie di episodi avvenuti tra il 1964 e il ’69, non a caso nel periodo delle lotte. Nel 1964 ci fu un attentato sul treno Brennero Express, mentre nel corso dell’anno successivo, il 1965, venne organizzato e finanziato dallo Stato maggiore dell’Esercito un convegno a Roma, nelle sale dell’Hotel Parco dei Principi, durante il quale si parlò di “guerra rivoluzionaria”. La relazione introduttiva venne tenuta da un ex gerarca della Rsi, la Repubblica sociale di Salò. Al convegno partecipò anche Pino Rauti (fondatore dell’Msi e del centro studi Ordine Nuovo, suocero dell’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno). In quell’occasione Rauti tenne una relazione intitolata “La tattica della penetrazione comunista in Italia”.

Il convegno del Parco dei Principi del 1965 venne poi interpretato come uno dei passaggi fondamentali dell’elaborazione della strategia della tensione made in Italy. E sì, perché la strategia della tensione, espressione che entrò nel linguaggio giornalistico solo con la strage di Piazza Fontana, si riferisce in realtà alla traduzione letterale dall’inglese, “strategy of tension” utilizzata dal settimanale The Observer, all’inizio del mese di dicembre del 1969, una strategia riferita quindi ad una certa politica praticata dall’amministrazione Usa per “destabilizzare” determinate situazioni politiche e sociali. In particolare la “strategy of tension” di cui parlò l’Observer era stata pensata – in collaborazione con il regime militare dei colonnelli greci – per controllare e destabilizzare paesi di valenza strategica nell’area del Mediterraneo. Tra questi paesi c’era la Turchia, ma c’era anche l’Italia.

Piazza Fontana fu dunque una tappa della strategia della tensione? Chi erano i mandanti? E quali sono stati i colpevoli individuati dalla giustizia italiana? Sono tre domande a cui è molto difficile rispondere, a tanti anni di distanza. Partiamo dall’ultima: in trentotto anni di indagini non è mai emersa una condanna definitiva per la strage. Il 3 maggio 2005 sono stati assolti definitivamente anche gli ultimi indagati. In questo momento non risultano procedimenti giudiziari in corso sulla strage. Alla seconda domanda (mandanti ed esecutori) possiamo rispondere solo con ipotesi politiche (non suffragate appunto dalle prove giudiziarie). E rispondiamo con le parole di uno dei magistrati che più si è speso per tentare di arrivare alla verità sulla strage del 12 dicembre: Guido Salvini. “Le motivazioni della sentenze – ha scritto nel 2005 Salvini – confermano che la strage del 12 dicembre 1969 e molti degli attentati precedenti furono inequivocabilmente opera di Ordine Nuovo. E nessuna sentenza indica come anche solo plausibili piste alternative, tantomeno quella del predestinato gruppo anarchico di Pietro Valpreda”. Lo stesso giudice Salvini sostiene che nei confronti di due imputati per la strage, Franco Freda e Giovanni Ventura (oggi non più processabili), sono emerse prove che se fossero state disponibili per il primo giudizio avrebbero confermato tutte le loro responsabilità.

Un singolo colpevole accertato fu comunque Carlo Digilio, tecnico degli esplosivi per conto delle cellule venete di Ordine Nuovo, il primo pentito dello stragismo italiano. Nella sentenza del giudice Salvini del 1998 c’è anche qualcosa in più. Oltre alle indagini sugli ambienti della destra eversiva italiana venne introdotta anche una inquietante variante estera. Salvini fece infatti il nome di David Carnet, ufficiale della US Navy, uomo della Cia e lo stesso giudice rinviò a giudizio (insieme a Carlo Digilio) anche il responsabile italiano della rete informativa Nato, Sergio Minetto. C’entrarono davvero qualcosa gli Stati Uniti con la strage di Piazza Fontana? Siamo tornati dunque alla prima domanda, alla domanda delle domande e alla quale non siamo in grado di rispondere oggi. Sappiamo invece che dopo il 1969 la miccia delle bombe è rimasta accesa: Peteano (1971), bomba alla Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia, Brescia (1974), treno Italicus (1974), stazione di Bologna (1980). 

» BLOG, Giordana a Piazza Fontana
» Il ricordo, "Quel giorno della strage"