Stop austerità. Perchè il referendum. È l'argomento si stamattina su RadioArticolo1, dove è intervenuto Gustavo Piga, docente di Economia politica all'Università di Tor Vergata di Roma, nonchè portavoce del comitato referendario (ascolta il podcast integrale). I dati 2014 e le previsioni per l'anno prossimo sono terribili per il nostro paese – conferma il professore –, e danno ragione ai promotori del referendum: l'austerità ammazza l'Italia e l'Europa. Se le nostre stime sul Pil sono peggiorate dell'1%, vuol dire che avremo una disoccupazione più alta dello 0,5%, pari a circa 100.000 disoccupati in più, cifre davvero pesanti. Ma la cosa peggiore è che chi perde il lavoro non lo ritrova più, così come chi chiude un'attività non ne riapre un'altra".

"La cosa riguarda soprattutto i giovani, che in caso di disoccupazione reagiscono in tre modi diversi: quelli che se lo possono permettere vanno all'estero e non tornano più, diventando fattori della produzione di un altro paese; altri si scoraggiano, alcuni vanno in depressione e in qualche caso addirittura si suicidano; infine, un'ulteriore parte, soprattutto in quelle zone dove l'economia sommersa e al nero è forte ed estesa, finisce preda della criminalità organizzata. Da qui, è nata l'idea del referendum tre anni fa, con errori nelle previsioni economiche che sovrastimavano la crescita, salvo poi riconoscere l'anno seguente che le cifre messe a punto erano sbagliate. Ragion per cui, lo ha ammesso anche il Premio Nobel per l'Economia, Paul Krugman, l'unico dato certo è che l'austerità ha fallito nel rendere stabili i conti, mentre il debito pubblico continua a salire".

"Insomma – prosegue Piga –, di fronte a un quadro così tragico, è giusto appropriarci, come abbiamo fatto, di uno strumento democratico come il referendum per forzare il dibattito. Sulla stessa falsariga si muove il Regno Unito. A me sta benissimo riconoscere il valore dell'austerità, se tutti ci pronunciamo a favore e siamo d'accordo nel dire che è questa l'Europa che vogliamo. Viceversa, noi che ci battiamo per un'Unione diversa siamo perchè tale dibattito sia portato fuori per le strade. E bisogna far presto, perchè il quadro sta peggiorando, come ci segnalano i dati diffusi ieri dall'Associazione Bruno Trentin, con il tasso di occupazione del nostrop paese sceso al 48,7%, superiore solo alla Grecia, mentre la media dell'Eurozona a 18 paesi è del 56,2, percentuale brutta, che racconta di un continente che funziona male, anche se la stessa America è in difficoltà. C'è un problema strutturale sull'occupazione che l'Occidente deve saper affrontare: il mondo cambia, le tecnologie si evolvono rapidamente e stanno rimpiazzando lavoro, costringendo le aziende durante le fasi recessive a licenziare personale e poi a non riassumere: l'esempio più classico è quello dei call center e delle segreterie telefoniche che sostituiscono le segretarie. Con la globalizzazione, si è scatenata una competizione perversa tra lavoratori a livello mondiale".

Comunque – secondo il professore –, il caso italiano è singolare: "C'è una disoccupazione giovanile con una percentuale terrificante, ma se si va a guardare in valori assoluti quel numero non è poi così alto se rapportato al caso inglese. Quello che a noi italiani ci penalizza sono gli scoraggiati, tutti coloro che perdono il lavoro e non lo cercano più. In tale speciale classifica siamo al 26° posto su 27 paesi dell'Ue. Ed è un altro sintomo che siamo generando con le attuali politiche economiche. Come ha detto l'altro giorno a Roma Joseph Stiglitz, 'il problema non è più uscire o meno dall'euro, ma quello di rischiare una sindrome giapponese di 20-25 anni di stagnazione, ovvero un'intera generazione che scompare. Una prospettiva agghiacciante, di cui avremo sentore già a settembre-ottobre, allorquando il nostro premier dovrà trovare almeno 30 miliardi, ovvero più del 2% di Pil,  per una manovra di maggiori tasse e minori spese per ottemperare al fiscal compact. Sono d'accordo nel tagliare le spese e dunque gli sprechi, ma da quel taglio nasce il più grande motore di risorse per fare sviluppo".

"Come insegna la Gran Bretagna – rileva ancora il docente –, che ha impiegato dieci anni di intenso lavoro, assieme ai sindacati, per mettere in pratica la spending review, separando ciò che era spreco da ciò che era domanda pubblica essenziale per il paese, i tagli non sono un divertimento da fare in pochi mesi. Invece, noi ci troveremo a settembre del tutto impreparati per decidere – e qui torniamo al punto del referendum – di non fare quel che ci dice l'Europa, oppure di fare aumenti di tassazione e riduzioni, non di sprechi, ma di domanda pubblica. A quel punto, non oso pensare a cosa succederà: di numeri così alti, per una manovra, non ne abbiamo mai avuti negli ultimi anni. So solo che così facendo il 2015 sarà il quarto anno consecutivo di recessione, cioè diminuzione del prodotto interno reale, con dinamiche sociali che renderebbero la situazione italiana e la stessa situazione europea insostenibili. Perciò, credo che avremo un autunno caldissimo, dove ci vorrà grande responsabilità da parte di tutti e soprattutto bisognerà capire attorno a cosa ci si vuole concentrare: a una stabilità senza crescita, che vuol dire insttabilità, oppure attorno alla crescita, che significa stabilità dei conti pubblici".

Qui si pone il tema degli investimenti pubblici, "il regalo che la generazione dei vecchi fa a quella dei giovani – osserva Piga –. Mio padre mise da parte il 4% del suo reddito da regalare a me; io, a mia volta, regalo a mio figlio l'1,4. Sappiamo bene com'è cresciuto il nostro paese attorno al motore degli investimenti pubblici negli anni '50, '60 e '70. Oggi questo motore va abbondantemente ripreso, e il problema non è solo trovare le risorse, ma anche come spenderle, e soprattutto non sprecarle: pensiamo ai casi del Mose e di Expo 2015. E all'Europa dobbiamo dire: signori, dateci meno austerità e noi sapremo finanziarla con riforme strutturali, la prima delle quali è il modo di utilizzare i fondi per fare spending review in modo credibile, per poter poi dire a Bruxelles: noi l'abbiamo avviata e ora, per favore, non chiedeteci di fare una manovra da 30 miliardi in piena recessione, ma concedeteci una moratoria di 2-3 anni sul fiscal compact. In tal modo, non avremo nemmeno bisogno di sforare il deficit del 3% ed eviteremo manovre stupide, cominciando a trovare gli sprechi, che diventeranno sempre più risorse per investimenti pubblici. E, come successe negli anni '30 con Roosevelt, anche il settore privato ritroverà fiducia".

"A quel punto – conclude Piga –, bisognerà fare una cosa che non abbiamo saputo fare quando l'economia tirava: mettere da parte i soldi, non fare più la cicala, ma la formica. E il discorso si dovrà estendere a tutta l'Ue. Solo allora, in nome della solidarietà tra gli Stati, avrà un senso il sistema dei controlli. Io, Europa, ti vengo in soccorso, ma pretendo che tu, singolo Stato, mi porti i conti pubblici sani. Quindi, è tutta la logica da rovesciare, ed è ovvio che l'Italia deve mettere sul tavolo riforme serie, la prima delle quali non è il mercato del lavoro nè tantomeno le privatizzazioni, ma il settore pubblico, a cui il nostro paese deve ridare decisamente smalto. E anche il sindacato deve avviare un dibattito al suo interno per quanto possa contribuire alla rinascita della pubblica amministrazione. Ne abbiamo enorme bisogno, non solo per acquisire credibilità in Europa, ma anche per dare forza alla nostra economia, perchè non esiste economia forte senza settore pubblico forte".