“Nel continuo ondeggiare dei dati sui voucher, forniti dall’Inps, che a seconda di chi li elabora, li legge e poi li interpreta, condizionando i pareri pro o contro l’uso di questo strumento, resta il fatto inconfutabile di come l’esplosione delle vendite dei cosiddetti buoni lavoro abbia profondamente drogato i dati sull’occupazione”. Morena Piccinini, presidente Inca, rilegge gli ultimi dati statistici forniti dall’Inps, in risposta alla richiesta del segretario generale della Cgil.

Si è arrivati quasi a sostituire altre forme contrattuali di lavoro e ad accelerare, anziché diminuire, il fenomeno del sommerso – prosegue Piccinini, che annuncia per il 28 febbraio un suo dossier sulle ricadute previdenziali dei buoni lavoro –, coinvolgendo un numero sempre crescente di giovani e donne, alla ricerca disperata di una stabilità. E l’ultimo dossier Inps sull’argomento, per quanti sforzi lessicali faccia, non riesce a negare questa evidenza”.

Più di tutti, saltano agli occhi i dati legati all’età e al genere dei lavoratori pagati con i ticket. Secondo il dossier Inps, dal 2008 al 2015 è diminuita costantemente l’età media (da 60 a 36 anni), così come la percentuale di uomini: erano l’80% nel 2008, sono scesi sotto il 50% nel 2015; mentre le donne pagate con voucher conquistano prepotentemente la maggioranza (circa il 57%). Nel 2003, anno in cui sono stati istituiti in via sperimentale per pagare “lavoretti”, i percettori di voucher erano appena 25 mila (contro il milione e 400 mila del 2016) e l’età media dei percettori sfiorava i 65 anni.

Tra il 2008 e il 2015, mediamente, ogni percettore di voucher ha riscosso circa 60 voucher l’anno, per un reddito netto di 450 euro, e la quasi totalità dei lavoratori (quattro su cinque) ha avuto un solo committente nell’anno. In particolare, nel 2015, l’81% era in questa condizione, mentre il 14% risultava aver lavorato per due committenti; il restante 5% per tre o più datori di lavoro. Una tendenza che, evidentemente, ha seguito le linee evolutive della normativa del lavoro accessorio, con la quale è stata estesa l’applicazione in modo indistinto a tutti i settori produttivi. Nel 2008, infatti, i voucher apparivano sostanzialmente “uno strumento per vecchi” (la definizione è dello stesso Inps). Nel 2011, invece, il baricentro risulta già spostato sui giovani, destinatari del 40% dei voucher, mentre nel 2015 il peso risulta cresciuto (assorbendo il 43% dei voucher complessivi), con il rafforzamento del rilievo dei trentenni (20,6%) e dei quarantenni (17,4%), lasciando agli over 60, presumibilmente pensionati, la quota modesta dell’8%.

Considerando i dati 2015 sul reddito pro capite del percettore di voucher, la media è stata di 63,8 buoni lavoro, pari a 478 euro netti nell’arco di un anno, ma il valore reddituale più frequente, si legge nel dossier Inps, si è attestato ben al di sotto, pari a 217 euro netti. Solo il 2,2% dei prestatori (circa 30 mila) ha riscosso nello stesso anno più di 300 voucher, con un guadagno netto nei dodici mesi superiore a 2.250 euro. Le ricadute sul piano previdenziale sono a dir poco allarmanti. Quasi la totalità dei percettori di voucher (84,4%) non riesce a maturare neppure l’accredito minimo di un mese di contribuzione, per il quale è necessario il versamento di 168,44 euro di contributi (pari a circa 130 voucher).

Nel variegato mondo dei numeri non mancano casi che lo stesso Inps definisce “curiosi”: nel 2015, oltre 23 mila lavoratori sono stati retribuiti con un solo ticket. Casi estremi di attaccamento alla legalità? Si chiede l’Inps, che subito dopo aggiunge una possibile alternativa alla domanda: o si tratta di fin troppo evidenti “coperture” di rapporti in nero? Il dubbio amletico dell’Inps resta.

Un altro elemento riportato nel dossier Inps riguarda la media giornaliera dei voucher incassata dai lavoratori, che nel 2015 è stata di 3,3 voucher a giornata, ma con profonde differenze: • circa il 30%, pari a 439 mila lavoratori ne ha riscossi 2 a giornata; • il 22%, pari a 300 mila lavoratori ne ha riscossi tra 2 a 4 a giornata; • il 28%, pari a 390 mila lavoratori ne ha riscossi tra 4 e 10 a giornata; • il 18%, pari a 250 mila lavoratori ne ha riscossi più di 10 a giornata.

Lo stesso Inps ammette: “È evidente la convivenza, nell’ambito del grande contenitore denominato lavoro accessorio, di situazioni eterogenee: accanto a un nucleo consistente di situazioni in cui il minuscolo voucher giornaliero fatica a mascherare il suo ruolo di leva archimedea per supportare prestazioni di lavoro nero, esistono altre situazioni, non proprio residuali, in cui la remunerazione tramite voucher è individuata dal committente come lo strumento più semplice per prestazioni anche di elevato contenuto professionale”. “Non si possono spiegare altrimenti – si legge nel dossier Inps – i quasi 100 mila lavoratori che hanno percepito mediamente oltre 20 voucher per giornata di attività”. E se lo dice l’Inps, c’è da crederci. Altro che “lavoretti”. In questi casi, a essere pagati con i voucher sono lavoratori altamente specializzati.

Ancor più dettagliato è il capitolo dedicato a tracciare l’identikit del percettore di voucher. Nel 2015, i pensionati sono stati circa 100 mila, scesi dal 31% del 2010 all’8% del 2015; i lavoratori attivi, cioè coloro che hanno una posizione assicurativa già aperta, alimentata anche da prestazioni di sostegno al reddito per disoccupazione, rappresentano il gruppo più numeroso: solo nel 2015, erano oltre 750 mila, con un’età media di 35,1 anni di età e prevalentemente donne. Dal 2013, questo gruppo di persone rappresenta oltre il 50% del totale dei prestatori.

Poi ci sono quelli che l’Inps definisce “silenti”, vale a dire disoccupati di lunga durata. Si tratta di oltre 300 mila lavoratori che hanno una storia lavorativa alle spalle, i quali però nel 2015 hanno percepito unicamente voucher. Età media 36,6 anni e maggioranza donne (il 57% rispetto al 54 del 2010). Ma non è finita: gli ultimi della classifica sono le persone prive di posizione assicurativa, cioè coloro che non risultano iscritti a nessuna gestione previdenziale, pagati unicamente con voucher: sono stati 200 mila nel 2015, sei volte di più di quelli registrati nel 2010. Si tratta di un insieme di lavoratori sempre più giovani, con un’età media che si è ridotta continuamente, dai 28,3 anni del 2010 ai 22,6 anni del 2015. In questo gruppo, l’incidenza delle donne è salita dal 45% del 2010 al 58% del 2015.

Tanto dettagliato è l’identikit del percettore dei voucher, quanto “anonimi” sono ancora i profili dei committenti-datori di lavoro che ricorrono ai ticket per pagare la manodopera: nel 2015, sono stati circa 473 mila. Il 59% di loro risulta come “esordiente”, vale a dire alla loro prima esperienza di ricorso ai voucher. La crescita ha subìto un’accelerazione a partire dal 2012 (anno in cui è stato esteso il campo di applicazione dei voucher), quando gli “esordienti” erano vicini alle 100 mila unità; nel 2013, sono stati 150 mila e nel biennio successivo oltre 200 mila per ciascun anno. Le aziende dell’industria e del terziario, con dipendenti che utilizzano anche prestatori di lavoro accessorio, sono quasi 247 mila, più della metà è attiva nei settori alberghi e ristoranti (75 mila) e nel commercio (53 mila). Le industrie che hanno utilizzato lavoro accessorio sono state 41 mila; il gruppo prevalente è quello delle imprese alimentari; 14 mila le aziende del settore delle costruzioni.

Complessivamente, l’insieme di queste imprese rappresenta il 52% dei committenti utilizzatori di voucher e il 76% in termini di voucher pagati. A questi si aggiungano 16 mila aziende dell’agricoltura, 65 mila artigiani e commercianti. Solo il 10% è riconducibile a datori di lavoro domestico e un altro 10% a professionisti (soprattutto, avvocati, medici, ingegneri). A dimostrazione di come ci si sia allontanati dallo scopo originario per cui erano stati istituiti i cosiddetti buoni lavoro.

A compendio del dossier, l’Inps, dopo reiterate richieste di chiarimento sul profilo dimensionale delle aziende utilizzatrici dei voucher, aggiunge alcune tabelle che distinguono i grandi committenti dai piccoli. Secondo questi dati, soltanto 102 sono le aziende con oltre mille dipendenti; 2.031 quelle con un numero compreso tra i 100 e 999; 3.071 tra i 50 e i 99; 11.045 tra i 20 e i 49 dipendenti; 22.894 tra i 10 e i 19. In testa alla classifica, come peraltro prevedibile, si collocano le imprese con un numero di dipendenti al di sotto dei 10 dipendenti, pari a 207.667. “La piramide che si delinea – conclude Piccinini – farebbe propendere per un uso limitato del voucher, ma questo non giustifica il coinvolgimento di grandi committenti, da cui ci si aspetterebbe un maggiore rispetto dei contratti di lavoro. Invece, preferiscono pagare la manodopera con i ticket al solo scopo di aggirare la regolarizzazione di questi lavoratori, a cui negano diritti e tutele, estendendo la flessibilità fino alle estreme conseguenze. Un percorso che deve essere interrotto subito, con l’abolizione totale di questo strumento oramai diventato malato”.