Serve una visione globale, economica e sociale, che coinvolga la società civile, i corpi intermedi e le istituzioni, un “controllo popolare” diffuso, una rivoluzione culturale. Se si dovessero sintetizzare con poche parole chiave i contenuti del dibattito “L'Italia che reagisce: giustizia per i cittadini e legalità economica”, sarebbero queste. C'è infatti un filo conduttore nello scambio avuto stamane nella prima iniziativa della seconda delle “Giornate del lavoro” organizzate a Rimini dalla Cgil.

Claudio Sardo, editorialista dell'Unità, indirizza lo scambio tra Livia Pomodoro, Presidente del Tribunale di Milano, Paolo Beni, Presidente dell'Arci, e Danilo Barbi, Segretario Confederale della Cgil, su una doppia direttrice: da un lato le politiche e il ruolo pubblico, nell'amministrare la giustizia e il controllo di legalità; dall'altro il ruolo attivo dei cittadini, delle organizzazioni sociali, della sinistra politica.

Livia Pomodoro li tiene insieme, questi due piani. “Far funzionare l'esistente – sostiene – senza un interminabile avvicendarsi di norme di legge, è più utile”. Ma da sola la legge non basta, aggiunge, vanno riportati i cittadini “alla partecipazione e alla responsabilità, per uscire da una crisi di legalità che è anche crisi di crescita”. La prima esclude la seconda. “È pero necessario – aggiunge – uscire dalla rincorsa mediatica della contingenza”. “Il dibattito sulla legalità è spesso un dibattito sull'emergenza – gli fa eco Barbi- e questo è un errore, perché i fenomeni criminali sono una forma socialmente ed economicamente diffusa e radicata”. È questo connubio tra giustizia, economica e sociale, e legalità ad attraversare tutto il dibattito.

É Paolo Beni, poi, a ritornare sul “controllo popolare” citato da Pomodoro. “Bisogna riattivare una responsabilità sociale, individuale e collettiva – dice – per fronteggiare la quotidianità, la normalità dell'illegalità”. Ma servono iniziative concrete. Fornisce un esempio, quella dei movimenti e delle associazioni, tra cui la sua Arci e la Cgil, che con la campagna “Io riattivo il lavoro” chiedono di migliorare la legge 109 sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla mafia, voluta da Pio La Torre. Una iniziativa voluta soprattutto per tutelare i lavoratori che operano in aziende che, una volta confiscate, sono destinate alla chiusura. “Lavoratori spesso incolpevoli”, specifica Livia Pomodoro, che ricorda come, a proposito di migliorare l'esistente, ci siano già esperienze fortunate in tal senso, laddove con i protocolli di intesa si è stati in grado di creare sinergie tra mondo dell'impresa, economia sul territorio, forze sociali e istituzioni.

“Una maggiore diffusione di cultura della giustizia e della legalità, quindi – domanda Claudio Sardo – crea più lavoro?”. La risposta di Danilo Barbi passa per un aneddoto partenopeo: “A Napoli mi hanno detto 'la camorra non gestisce asili nido, è per questo che non li abbiamo'. La spesa concentrata dalle pubbliche amministrazioni su faraoniche opere pubbliche, spesso incompiute, e non sull'offerta di servizi e protezioni sociali è di per se un indicatore della penetrazione criminale. La cattiva spesa pubblica non aiuta a creare lavoro, anzi è un ostacolo. Serve un nuovo modello di sviluppo”. Che parta dalla giustizia fiscale, che Barbi addita come il vero buco nero del sistema italiano. “L'evasione fiscale italiana è un fenomeno di illegalità diffusa che produce ingiustizia”, aggiunge, “perché spesso finalizzata all'arricchimento”. Una spesa poco qualificata o utilizzata in modo illecito e una disattenzione ai servizi pubblici di qualità sono il nostro male. Serve una rivoluzione culturale a partire dalla “legalità nei luoghi di lavoro, che riduce il ricatto occupazionale”. “Una società civile organizzata – aggiunge in piena sintonia Paolo Beni – un contrasto forte, che cominci dalle agenzie formative, dalla scuola, perché la legalità è soprattutto senso di giustizia”. (ar)