Ormai alla ripresa credono soltanto Renzi e quelli del suo “cerchio magico”. Con gli occupati che diminuiscono e l’area dell’inattività che si allarga quasi a vista d’occhio, sarebbe una bella impresa per chiunque, anche per l’osservatorio economico più allineato ai diktat della maggioranza di governo, sostenere che siamo in presenza di un’importante inversione di tendenza.

Maggior prudenza, sul delicato versante delle rilevazioni effettuate, non guasterebbe. La stessa prudenza che, con una certa continuità a partire dal mese di gennaio, va suggerendo la Cgil. Perché servono davvero a poco le sfilze di numeri snocciolati, a ogni stormir di statistica, con l’evidente ed esclusivo fine di prestarsi a una difesa d’ufficio dell’operato di questo o quel ministro. Non servono a un beneamato nulla – anzi, riescono a sortire l’effetto diametralmente opposto – se addirittura collegati strumentalmente all’efficacia delle politiche nel loro insieme messe in atto dagli inquilini di Palazzo Chigi, soprattutto quando ci si riferisce al Jobs Act.

E la freddezza dei numeri – quelli attendibili, se non altro perché elaborati da istituti con il crisma dell’ufficialità –, non lascia spazio a interpretazioni di sorta. Basterebbe soltanto dare un’occhiata ai dati ricavati dal Sistema informativo delle Comunicazioni Obbligatorie e relativi al mese di maggio, per comprendere che – con buona pace dell’insistente vento di propaganda – l’andamento dell’economia italiana è stagnante. Una conclusione a cui si giunge con tutta evidenza a partire dalla lettura delle stime relative ai contratti a tempo indeterminato: più 271 (salvo poche eccezioni, tutti a tutele crescenti) il saldo tra attivazioni e cessazioni a maggio, mentre nel mese precedente lo stesso aveva raggiunto quota 50 mila (per la precisione, 199.640 le attivazioni, 149.789 le cessazioni).

Ma il quadro riesce addirittura a peggiorare – sembra impossibile, ma è così – se si prendono in considerazione i dati (stessa fonte dei precedenti) sul ricorso ai contratti a termine, che fanno registrare una crescita pari a 184.812 unità, il 65,6% ad aprile e il 68,8 a maggio; sugli inattivi – 36 mila persone che non hanno un lavoro e non lo cercano nemmeno (fonte Istat, anch’essi riferiti al mese di maggio rispetto ad aprile); sul ricorso ai voucher – 69 milioni venduti nel 2014 e utilizzati in tutti i settori (fonte Tito Boeri, presidente dell’Inps) –: numeri, questi ultimi, che confermano plasticamente come la cosiddetta riforma del lavoro, oltre a togliere i diritti, abbia permesso di formalizzare la precarietà attraverso la possibilità concessa alle imprese di assumere, senza oneri contributivi, pagando un semplice ticket e mettendo definitivamente in soffitta i contratti nazionali di lavoro e le tutele sociali.

C’è bisogno di aggiungere altro? Sì, che il tema vero per il nostro paese, se si ha davvero l’ambizione di essere presi sul serio, rimane la creazione di occupazione e lo stimolo agli investimenti. Il continuo rallentamento dei contratti a tempo indeterminato e la crescita dell’incidenza di quelli a termine sul totale delle attivazioni, uniti all’aumento delle cessazioni, dimostrano che il mercato del lavoro è ben lungi dal potersi definire stabilizzato e risente dell’ormai endemica assenza di politiche di sostegno alla domanda. Per tutte queste ragioni, suona decisamente fuori luogo l’entusiasmo ostentato alcuni giorni fa dal ministero dell’Economia (“un vero punto di svolta”) relativamente agli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale (più 3% a maggio rispetto allo stesso mese dello scorso anno). Solo nell’Italia renziana è possibile parlare di ripresa in un contesto di oggettiva svalutazione del lavoro.