Di seguito l'articolo primo classificato al concorso letterario “L’eredità di Anna” organizzato dalla Camera del Lavoro di Milano in collaborazione con la scuola di giornalismo “Walter Tobagi” 

Dolore al petto, indolenzimento del braccio sinistro, nausea. È un infarto imminente. Sintomi noti a tutti. Li impariamo a scuola, dalla tv, si leggono sui manuali universitari. È uno dei tanti stereotipi ai quali pazienti, medici e istituzioni sono assuefatti. Ma per le donne non è così: quando il cuore sta per cedere sentono dolore al collo, alla schiena, hanno difficoltà a respirare, sudori freddi, vertigini. Le diagnosi sono spesso sbagliate e, ogni anno, in Italia muoiono per malattie cardiache 30 mila donne.

Non si tratta di malasanità, riguarda un approccio alla salute cieco rispetto alle differenze di genere. Da sempre la medicina occidentale ha descritto le donne come uomini più piccoli. Unica peculiarità: l’apparato riproduttivo.
La medicina di genere vuole combattere questi luoghi comuni, per garantire una migliore qualità della vita. Soglia del dolore, reazioni del sistema immunitario, tolleranza ai farmaci, pressione arteriosa, tra donne e uomini tutto è diverso.

Non è un discorso politically correct: pensare i corpi in modo neutro è stato uno specchio deformante. Fino al 1991 il genere è stato un problema del tutto assente nella ricerca scientifica. Il risultato è stato il “paradosso donna”: una vita più lunga, ma un destino di cattiva salute. Farmaci studiati per lo più sugli uomini rendono le terapie più lunghe, più dolorose e, a volte, inefficaci per l’altro sesso. Fino a vent’anni fa, quando si doveva testare un farmaco per il cuore, solo il 7% del campione era di genere femminile. E tuttora una donna su tre muore per malattie cardiovascolari.

Le cure che non tengono conto del genere trasformano in rischi per la salute anche i punti di forza dell’organismo femminile: ignorarne la maggiore resistenza ai virus significa sovradosare alcuni farmaci, che possono scatenare malattie autoimmuni.

Il diritto alla salute è garantito dall’articolo 32 della Costituzione, ma finora è stata tutelata solo la parità di accesso alle cure, non il benessere che devono assicurare. Le diseguaglianze sono nei fatti.

L’Italia si sta muovendo lentamente: nel 2004 il ministero della Salute ha organizzato il primo convegno sul tema e il primo libro italiano su come i farmaci influenzano il genere è del 2010. Nel frattempo Puglia, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia hanno introdotto le differenze di genere nei piani sanitari regionali. Ma mancano ancora una legge nazionale e un approccio integrato.

Solo nell’agosto 2013 è stata depositata una proposta di legge per fissare obiettivi organici e abbattere le diseguaglianze che riguardano la salute, dalla ricerca alle pratiche ospedaliere. La proposta non è ancora stata calendarizzata in Parlamento. È ferma alla XII Commissione affari sociali. La minaccia dei tagli lineari alla sanità (scongiurati) dell’estate dell’anno scorso ha limitato la portata del progetto. La difficile digeribilità dell’argomento e il velato pregiudizio verso la differenza non hanno aiutato. Eppure tutto ciò riguarda anche i costi: entro il 2050 la spesa sanitaria nazionale supererà il 10% del Pil e migliorare l’efficacia dei trattamenti ha effetti anche in campo economico. Curare in modo sbagliato una malattia (o non riconoscerla come tale) aumenta i costi dello Stato e danneggia gli individui e la società.

Per Ilaria Capua, pioniera dell’open science, deputata di Scelta Civica e tra le promotrici della proposta di legge sulla medicina di genere, “non si tratta di una rivendicazione, ma di esigere un cambiamento culturale radicale”. Il tema della donna è uno stimolo ad ampliare le aree di intervento, perché l’approccio medico tradizionale ha effetti negativi anche sugli uomini. Osteoporosi e tumori al seno hanno una più alta incidenza sulle donne, ma possono colpire tutti. In questo caso lo schema è ribaltato: diagnosi e trattamenti sono pensati per il sesso femminile e i pazienti maschi ricevono cure non adatte.

Per le malattie mentali la situazione non è migliore. Le donne depresse sono tre volte più degli uomini. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’ansia, le umiliazioni subite e gli effetti dell’esclusione sociale vengono ricondotti in modo improprio alla depressione. Spesso si agisce solo sui sintomi e non sulle cause, anche quando dipendono da fattori esterni. La capacità di resistenza a sostanze tossiche, l’ergonomia dei luoghi di lavoro e la reazione ai traumi, sono state studiate per il sesso maschile. Se il malessere delle donne dipende dall’ambiente circostante, viene risolto per via psichiatrica e non sociale.

Con la medicina di genere non si contesta solo la cura, ma il pregiudizio nelle diagnosi. Così emerge il legame tra peggioramento della salute ed emarginazione, che non si risolve con calmanti e antidepressivi. Perché il genere non riguarda cromosomi e profili ormonali, descrive le caratteristiche culturali della maschilità e della femminilità e il modo in cui i fattori biologici sono interconnessi con la vita, dalle relazioni sociali al lavoro.
Il genere finora è stato di competenza del sapere umanistico, mentre la medicina ha sempre amato rappresentarsi come una scienza. “L’obiettivo di lungo periodo è far convergere queste due culture”, scrive Fulvia Signani, socia fondatrice del Gruppo italiano salute e genere. Pensare la differenza anche in campo medico costruisce un ponte tra campi del sapere diversi e crea una nuova consapevolezza educativa, clinica e strategica nei confronti della salute.