1. La proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu formulata dalla Cgil per la prima volta, a pochi anni di distanza dalla promulgazione della Costituzione e immediatamente dopo la scissione sindacale, nel congresso di Napoli del 1952. Era una proposta aperta, se si vuole tecnicamente grezza, ma l’idea di fondo era sufficientemente precisa, ben riassunta nello slogan “la Costituzione nelle fabbriche”. Il testo costituzionale, infatti, pur proclamando importanti princìpi di libertà, non aveva innovato l’assetto giuridico effettivo dei rapporti individuali e collettivi di lavoro in modo tale da costituire una trincea sufficientemente solida per difendere i lavoratori nella difficilissima situazione che si era venuta a creare negli anni 50 del XX secolo. E infatti la regolamentazione giuridica utilizzata da giudici e giuristi era essenzialmente quella del codice civile del 1942 depurata dalla giurisprudenza da ogni riferimento ai sindacati fascisti, e che attribuiva all’imprenditore, tra l’altro e in primo luogo, piena libertà di licenziamento. In questo quadro, la pur generosa lotta portata avanti da alcuni giuristi dell’epoca (Calamandrei, Crisafulli, Natoli) per porre un argine ai poteri imprenditoriali invocando il rispetto del patto costituzionale s’infrangeva contro il muro di gomma di un intero ceto di giuristi che rifiutava di applicare i princìpi costituzionali o affermando la loro non immediata applicabilità in attesa di improbabili leggi attuative ovvero, più spesso, semplicemente ignorandoli nei ragionamenti che portavano alle decisioni concrete.

Del resto, le norme della prima parte della Costituzione sono norme di principio, prive di un proprio apparato sanzionatorio e sull’azione in giudizio tale da garantirne l’effettiva applicazione. Inoltre queste norme di principio intendevano innovare profondamente l’assetto dei rapporti sociali (la rivoluzione promessa di cui parlava Calamandrei) e, dunque, quell’apparato non poteva essere rintracciato né nei meccanismi spontanei della società stessa, né nei codici che costituivano un nucleo normativo ideologicamente antagonista.

“Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica,,una sua fede religiosa, e vuole che, questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo dal padrone (…) perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di ‘Statuto’ che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”; così Di Vittorio motivava la proposta avanzata al Congresso: si trattava di una piattaforma politica per mobilitare l’intero movimento dei lavoratori.

Non era neanche definito se lo strumento formale dovesse essere una legge o un contratto collettivo. E, in questa piattaforma, era ravvisabile una linea di fondo che è utile rilevare perché costituisce uno dei poli del successivo dibattito: con lo Statuto non si mira a regolare le relazioni sindacali, neanche a livello di azienda; si mira a impedire che i poteri dell’imprenditore possano essere usati per comprimere le libertà fondamentali del lavoratore-cittadino. La regolamentazione del sindacato e dell’azione sindacale è affidata, dalla Cgil, ad altri interventi legislativi: quelli di attuazione dell’art. 39 della Costituzione, sulla registrazione del sindacato, sull’efficacia erga omnes del contratto collettivo, sul diritto di sciopero, sul riconoscimento giuridico delle Commissioni interne.

Nel frattempo abortivano i tentativi di una legge sindacale proposti dai governi centristi; quello che va più avanti, il progetto Rubinacci, non arriva neanche a essere discusso in Parlamento; gli altri si fermano ancor prima. Si trattava di proposte che intendevano ingabbiare il sindacato in una complessa rete normativa che gli assegnava sostanzialmente una funzione di regolazione dei salari a livello macro-economico, escludendone ogni incidenza sugli equilibri, da un lato, politici e, dall’altro, aziendali. Come ebbe ad osservare Tiziano Treu, di fronte alle difficoltà di far passare questo disegno in Parlamento, la scelta dei governi centristi fu quella di lasciare la repressione dell’azione sindacale al potere privato degli imprenditori e alle misure di polizia. Se, nel breve periodo, questa scelta fu pagante, sul periodo un po’ più lungo la rese una variabile immediatamente dipendente dagli equilibri politici.

2. Questi ultimi mutarono, appunto, con il passaggio dagli anni 50 agli anni 60 portando alla crisi del centrismo e alla nascita del centro-sinistra: mentre negli altri paesi europei i partiti operai assumevano dirette responsabilità di governo, in Italia la questione si presentava con caratteristiche particolari perché il maggiore dei partiti operai era il Partito comunista che, per ragioni internazionali, era escluso da tale possibilità. Per soddisfare quelle esigenze, dunque, pur rimanendo il sistema politico imperniato sulla Democrazia cristiana, fu cooptato nella maggioranza di governo il minore dei partiti operai, il Partito socialista. Questa strategia aveva bisogno, però, di essere sostenuta anche dal consenso delle grandi confederazioni sindacali, e non solo – come era stato negli anni 50 – da parte della Cisl, ma anche della Cgil. Da un lato, ciò significò apportare profonde modificazioni nel sistema di relazioni industriali e ciò avvenne con l’introduzione della contrattazione aziendale, prima nella forma della contrattazione articolata (il Protocollo Intersind Asap del 1962), poi in forme più penetranti. Nel nuovo ruolo assunto dalle relazioni industriali, al sindacato non era più affidato solo il compito di regolare il mercato del lavoro a livello macroeconomico, con il contratto nazionale; era necessario e opportuno che il sindacato assumesse anche il ruolo di regolatore del conflitto sociale nelle grandi fabbriche fordiste. Ma per portare a compimento un simile disegno era necessario un intervento normativo che costringesse gli imprenditori ad accettare la dialettica sindacale nelle loro imprese, rinunziando a essere l’unico signore nelle loro fabbriche. Di qui l’idea del secondo governo Moro di riprendere la proposta di uno Statuto dei lavoratori già nel discorso programmatico e, poi, facendo inviare alle parti sociali un articolato questionario dal ministro del lavoro Delle Fave.

Non aveva torto la Cisl, nella sua risposta al questionario, a osservare che dava già per risolti alcuni aspetti essenziali del problema; in primo luogo che lo strumento con il quale introdurre le nuove norme dovesse essere quello legislativo, quando questa confederazione puntava a una regolamentazione dei diritti sindacali in azienda per via contrattuale, attraverso la proposta di un accordo quadro. Però, l’esigenza dei governi di centro-sinistra di guadagnarsi il consenso operaio imponeva importanti concessioni alla confederazione maggiore, la Cgil, attraverso uno strumento – la legge – chiaramente proveniente dal sistema politico. La proposta di uno Statuto dei lavoratori divenne, dunque, parte integrante delle strategie dei governi di centro-sinistra.

Queste iniziative, se riproposero nell’agenda politica la questione, in un primo momento sortirono un effetto solo simbolicamente importante: la cosiddetta legge sulla giusta causa (la n. 604 del 15 luglio 1966). Con essa, infatti, il dogma della libertà di licenziamento era finalmente messo in discussione, ma il licenziamento illegittimo era sanzionato solo con il pagamento di un esiguo risarcimento.

3. Nella seconda metà degli anni 60, intanto, veniva a maturazione un lungo processo di evoluzione del mercato del lavoro già iniziato negli anni 50. Almeno all’interno delle grandi fabbriche, la domanda e l’offerta di lavoro tendevano a riequilibrarsi anche per le qualifiche più basse. Questo profondo mutamento strutturale non riusciva a esprimersi né nel sistema politico né in quello di relazioni industriali per il loro – relativo – consolidamento. La mancanza di sbocchi creava, dunque, tensioni che investivano le stesse regole del gioco, sia nel sistema politico, sia nell’organizzazione del lavoro, sia infine all’interno delle organizzazioni sindacali. Né, d’altro canto quelle tensioni potevano rimanere – come è accaduto in altri paesi – allo stato di un generico malessere sociale. Infatti, il loro luogo naturale era il grande stabilimento industriale dove i processi di socializzazione da questi imposti ne favorivano un’espressione organizzata. D’altro canto, un elemento troppo spesso trascurato dalle riflessioni in materia è che i principali soggetti portatori di quelle tensioni, gli immigrati meridionali, erano in buona parte portatori della memoria storica delle grandi lotte per il lavoro del dopoguerra e cioè di una tradizione sindacale peculiare, che mal si conciliava con quella prevalente nelle grandi categorie industriali, ma che non di meno era una tradizione di organizzazione e di lotta quanto mai radicata e vivace. Insomma si produceva quell’importantissimo processo politico e sociale universalmente noto come autunno caldo.

Non era, dunque, più rinviabile l’accettazione esplicita di un conflitto sindacale la cui negazione a livello ideologico non aveva più efficacia a fini repressivi. Era invece necessario riconoscerlo per (avere la possibilità di) controllarlo. I tempi politici per l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori erano ampiamente maturi.

4. Nel corso degli stessi anni (seconda metà degli anni 60) si svolgeva, in ambienti non direttamente politici, un dibattito del massimo interesse per intendere quello che sarà lo Statuto dei lavoratori. Esso affonda le sue radici nel rinnovamento degli studi di diritto sindacale a opera di alcuni studiosi, tra i quali – in primo luogo – Gino Giugni. La valorizzazione del principio di libertà sindacale e, contemporaneamente, la svalutazione degli altri contenuti normativi dell’art. 39 consentono a questi studiosi – pur in assenza della legge di attuazione della norma costituzionale – di costruire un significato giuridico dell’azione sindacale che si caratterizza per la sua autonomia dallo Stato e, dunque, dall’esperienza politica. L’attenzione si sposta dalla tradizionale tutela del lavoratore come contraente debole del contratto di lavoro al sindacato come soggetto del conflitto per costruire un (contro)potere dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. L’esperienza italiana degli anni 50 dimostrava come il conflitto potesse essere represso e come tale repressione ingessasse la società e lo stesso sistema produttivo. Nasceva così la nozione di legislazione di sostegno all’attività sindacale intesa non come interventi legislativi che si ponessero in concorrenza con la contrattazione collettiva nel dettare norme di protezione del singolo lavoratore, ma come fattore di potenziamento dell’azione sindacale e, dunque, di garanzia della capacità dei sindacati di essere soggetti effettivi del conflitto industriale. Né si voleva regolare il soggetto sindacale, come volevano fare i progetti governativi di attuazione dell’art. 39 della Costituzione; in coerenza con il principio di libertà sindacale, le scelte organizzative dei sindacati rimanevano libere.

5. In questo contesto, il Consiglio dei ministri, il 24 giugno 1969, presentò al Senato il disegno di legge n. 738 che, dopo un approfondito dibattito parlamentare, diventò la legge 20 maggio 1970 n. 300. In esso, non si trascurava che l’obiettivo di fondo era quello di “creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana” – così richiamando l’antica proposta della Cgil –, ma faceva del sindacato il perno della tutela, in quanto “la disciplina (…) resterebbe incompiuta e forse non rigorosamente applicata, ove l’intervento legislativo non si traducesse altresì in un’azione di sostegno e di promozione dell’attività rappresentativa del sindacato in azienda” (così diceva il ministro Brodolini nella relazione al ddl). Un confronto tra il ddl governativo e l’iniziale proposta della Cgil – presente nel dibattito parlamentare attraverso i disegni di legge di origine parlamentare – ci mostra come, per quest’ultima, lo Statuto dovesse essere l’attuazione delle libertà costituzionali nelle fabbriche perché il sindacato potesse svolgere la propria azione fuori di esse, nel sistema economico, politico e sociale complessivo e, dunque, costituiva una sorta di premessa alla legge sindacale di attuazione dei commi 2°, 3°e 4° dell’art. 39 della Costituzione: registrazione del sindacato, conseguimento della personalità giuridica, abilitazione alla stipulazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes. Il ddl governativo, invece, si fondava sull’esperienza sindacale che si era venuta formando negli anni 50 e 60 del secolo scorso nella mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione e faceva dello Statuto la legge sindacale di un sistema di relazioni industriali che si andava articolando in tanti sottosistemi quante sono le fabbriche. Il dibattito parlamentare fu ampio e fecondo: lo Statuto, nella sua versione finale, rimase, in primo luogo, uno strumento di promozione dell’esperienza sindacale che si era andata formando in quegli anni nel vuoto lasciato dalla mancata attuazione dell’articolo 39. Il modello che informa la legge è quello di un sindacato che fa della fabbrica il luogo centrale della sua azione. Del disegno governativo rimane anche la parità tra i sindacati maggiormente rappresentativi – in primo luogo le grandi confederazioni – così prefigurando l’assetto del Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil del 1972 con il quale la prima confederazione riconosceva come pari a sé le altre due nonostante la propria maggiore consistenza organizzativa, in cambio della rinuncia di queste ad accordi separati. Il sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro si accompagna anche al rispetto delle forme organizzative che il sindacato sceglie di darsi: nell’articolo 19, infatti, il legislatore non prescrive questa o quella forma di organizzazione nei luoghi di lavoro; attribuisce i diritti del titolo III alle rappresentanze sindacali aziendali che abbiano due requisiti: siano costituite a iniziativa dei lavoratori e siano in qualche modo – non si precisa quale – collegate con almeno uno (ma anche più di uno: articolo 29) dei sindacati esterni maggiormente rappresentativi.

Ciò consente che le misure di sostegno siano attribuite a organismi separati, ma anche a organismi unitari; alle vecchie Commissioni interne ma anche ai Consigli di fabbrica che allora si andavano formando; consente di non avere difficoltà ad attribuirle, oggi, alle Rappresentanze sindacali unitarie. Insomma, la legge, pur avendo l’obiettivo di favorire la presenza sindacale in azienda, lascia autonomi i lavoratori di scegliere la forma organizzativa che questa presenza deve assumere.

A questo nucleo duro si aggiungono significativi allargamenti delle concessioni già effettuate nel ddl governativo alla diversa impostazione dei partiti di opposizione che più direttamente si ispirava all’iniziale proposta della Cgil: limitando le indicazioni a quelle più significative, possono ricordarsi il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero anche nei luoghi di lavoro (articolo 1); la regolamentazione del potere disciplinare (articolo 7); il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore (articolo 8); il diritto dei lavoratori di intervenire in materia di sicurezza ed ambiente di lavoro (articolo 9); il diritto allo studio (articolo 10); una penetrante limitazione del potere di variare le mansioni, a difesa della professionalità del lavoratore (articolo 13); il divieto di atti discriminatori (articoli 15 e 16). Rimane anche la forte tensione verso l’effettività della nuova normativa e l’adozione di nuove tecniche giuridiche per garantirla: prime tra tutte, la previsione dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato (articolo 18) e quella – ripresa dall’esperienza della legislazione sindacale nordamericana – della repressione della condotta antisindacale (articolo 28).

Questa capacità di dialogo tra maggioranza e opposizione, insieme con le pressanti esigenze di ammodernare il nostro sistema giuridico alla nuova realtà economica e sociale, portarono all’approvazione della legge da parte di un largo arco di forze: l’astensione dei gruppi parlamentari del Pci, della sinistra indipendente e del Psiup fu motivata con il mancato accoglimento della proposta di riconoscere un qualche status all’organizzazione partitica nei luoghi di lavoro, ma, contemporaneamente, queste forze politiche espressero un giudizio ampiamente positivo sulle modifiche introdotte nel corso del dibattito parlamentare.

6. Sono passati quarant’anni dall’approvazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, Norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, appunto nota come Statuto dei lavoratori. Il giudizio storico su questa legge non può che essere ampiamente positivo: i protagonisti, individuali e collettivi, della vicenda hanno dimostrato una rilevante capacità di leggere i cambiamenti nella struttura economica e sociale della nostra società e di avanzare proposte adeguate che non si limitavano al piccolo cabotaggio del governo della situazione contingente. I conflitti c’erano ed erano aspri, ma i soggetti che ne erano portatori erano in grado di collocare gli interessi che rappresentavano in un orizzonte ampio e significativo e, proprio su questo piano, assumevano la Costituzione come tavola di valori condivisi che, appunto, consentiva sia il dialogo, sia compromessi ragionevoli: un semplice confronto con la situazione attuale rende evidente l’abissale differenza. Sul piano giuridico, va in particolare segnalata la tensione verso l’effettività: non vi è spazio per un riconoscimento di diritti che rimangano sulla carta; lo sforzo è costantemente quello di accompagnare quel riconoscimento con la strumentazione adatta a inverare quei diritti nella dinamica concreta dei rapporti produttivi e sociali. Insomma, è lo Statuto dei lavoratori che ha consentito ai princìpi costituzionali di fare ingresso nei concreti ragionamenti di giudici e giuristi, che ha promosso l’ammodernamento del nostro sistema produttivo e di relazioni industriali; anche a questo proposito, è abissale la differenza con l’attuale situazione di leggi che sono giustificate con motivazioni opposte al loro contenuto normativo obiettivo. Però, quando si traccia un bilancio di una legge ancora vigente, non ci si può limitare a un giudizio storico sul suo processo di formazione e sul suo significato nel contesto in cui è nata. È una legge che va applicata ancora oggi: è, dunque, necessario verificare quali dei suoi contenuti normativi siano ancora attuali e quali siano superati.

Sono certamente ancora pienamente attuali le norme del titolo I e II a tutela della libertà e della dignità del lavoratore e della libertà sindacale di cui, non a caso, il legislatore del 1970 non aveva limitato l’ambito di applicazione a un certo numero di dipendenti: per affermare il contrario occorrerebbe negare, in contrasto con la realtà, che esistano lavori che, per la loro precarietà, di fatto limitino la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, ostacolando il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione alla vita politica, economica e sociale (articolo 3 della Costituzione). Proprio il richiamo alla norma costituzionale pone il problema dell’applicazione di queste norme ai contratti di lavoro cosiddetti flessibili (meglio: precari), nel 1970 pressoché inesistenti. Tra questi occorre fare una distinzione: da un lato ci sono i contratti che, anche se hanno un trattamento normativo peggiore di quello dei contratti standard, sono comunque riconducibili al contratto di lavoro subordinato (apprendistato, contratto di inserimento, lavoro intermittente, job sharing) ; in questo caso nulla ostacola l’applicazione delle norme in questione. Ma anche per i contratti flessibili non riconducibili alla figura generale del contratto di lavoro subordinato (i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella forma a progetto, e le associazioni in partecipazione in cui il contributo dell’associato sia una prestazione di lavoro) si può arrivare alla medesima conclusione: lo scopo di queste norme è, infatti, quello di tutelare la libertà e la dignità del lavoratore e tale scopo ricomprende tutte le ipotesi nelle quali il lavoro concretamente svolto possa ledere i beni protetti per la sua continuità nel tempo. Ancora attuale è anche la norma (articolo 28) che impone al giudice di reprimere eventuali condotte dell’imprenditore tese a limitare la libertà e l’attività sindacale, nonché l’esercizio del diritto di sciopero: il rischio che l’imprenditore utilizzi i propri poteri a questo fine è ancora ben presente e ci sarà sempre, finché vi sarà uno squilibrio di potere tra imprenditore e lavoratori.

Più di una ruga c’è, invece, nel titolo III, nella parte della legge di sostegno all’attività sindacale. Come è noto, i diritti riconosciuti da questa parte dello Statuto alle organizzazioni sindacali sono riservati alle organizzazioni maggiormente rappresentative; i criteri di identificazione delle stesse erano fondati su criteri presuntivi; non vi è alcuna graduazione nell’attribuzione di tali diritti, proporzionale al grado di rappresentatività delle diverse organizzazioni. Il primo elemento è passato sia al vaglio di legittimità costituzionale sia a quello referendario: la Corte costituzionale, infatti, fin dalla sentenza n. 54 del 1974 (dunque, pochi anni dopo l’approvazione della legge) ha assunto un orientamento successivamente confermato varie volte: non viola né la libertà sindacale, né il principio di eguaglianza una norma di legge ordinaria che riservi a sindacati selezionati secondo criteri dotati di ragionevolezza diritti che vadano oltre la libertà sindacale, a condizione che quest’ultima sia comunque garantita a tutti. Nel 1995, inoltre, si svolse un referendum abrogativo su due quesiti, uno dei quali mirava a estendere a tutti i sindacati questa parte della legge e il corpo elettorale respinse la proposta.

Fu, invece, approvato l’altro quesito referendario, più limitato perché riguardava i criteri presuntivi in forza dei quali la legge procedeva alla selezione dei sindacati maggiormente rappresentativi. A seguito dell’esito del referendum, i diritti sindacali del titolo III oggi spettano ai sindacati firmatari di un contratto collettivo applicabile nell’unità produttiva. Tale criterio è stato oggetto di critiche da più parti, ma – con lo strumento del referendum abrogativo – non potevano certo essere adottati strumenti più raffinati di misurazione dell’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali (per intenderci, del genere di quelli adottati, per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con il dlgs n. 396/1997: oggi, art. 43 dlgs n. 165/2001): avrebbe dovuto essere adottata una nuova legge sulla rappresentatività sindacale, ma questa non c’è stata né allora, né in seguito, nonostante le ripetute iniziative in tal senso, soprattutto da parte della Cgil, e nonostante sia stata auspicata dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 30 del 1990.

Infine, il titolo III dello Statuto attribuisce i diritti sindacali in pari misura a tutti i sindacati che realizzino la maggiore rappresentatività, a prescindere dalla misura della stessa. Questa parità è figlia di uno scambio che per molti anni – pur nelle alterne vicende dell’unità sindacale – è avvenuto tra le tre maggiori Confederazioni: la Cgil, nonostante il maggior seguito che ottiene tra i lavoratori, riconosceva come pari a sé Cisl e Uil in cambio della rinuncia di queste ultime a stipulare accordi separati. Di accordi separati, in questi quarant’anni, ce ne sono stati molti, ma il punto più basso è stato raggiunto di recente, il 22 gennaio 2009, quando la divaricazione di strategie tra le tre Confederazioni ha investito le stesse regole del sistema di contrattazione collettiva e tutto ciò mette certamente in crisi l’intero sistema di convenienze reciproche che aveva consentito quello scambio. Non è certo fuor di luogo, a questo punto, rivendicare il superamento del principio di parità e che i diritti sindacali siano ripartiti in proporzione al grado di rappresentatività che ciascuna organizzazione è in grado di guadagnarsi tra i lavoratori.

7. Rimane da affrontare il mitico articolo 18, che prevede l’obbligo di reintegrazione effettiva del lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato. Da più parti, anche da ambienti di centro-sinistra, è avanzata la proposta di modificarlo, limitando l’obbligo di reintegrazione alle ipotesi di licenziamento discriminatorio e limitando la sanzione contro i licenziamenti semplicemente privi di giusta causa o di giustificato motivo a un risarcimento del danno più o meno esiguo. Prescindo, naturalmente, dalla giustificazione di una simile proposta per cui l’abrogazione dell’articolo 18 produrrebbe, magicamente, una maggiore propensione delle imprese alla creazione di nuovi posti del lavoro: non è mai stato dimostrato un legame tra flessibilità del lavoro e occupazione. O dall’altra per cui una maggiore libertà di licenziare consentirebbe agli attuali lavoratori precari di uscire dalla precarietà: mi basta, in proposito, osservare che è un ben curioso strumento di lotta alla precarietà quello di rendere precari i lavoratori che oggi non lo sono.

Quello che va rilevato è che l’obbligo di reintegrazione nega che, per il diritto, l’imprenditore abbia una signoria assoluta sull’organizzazione del lavoro: un lavoratore può esserne espulso solo se ha commesso un grave inadempimento o se ricorrono serie ragioni di razionalità organizzativa; in mancanza di questi elementi, il licenziamento non può produrre l’effetto di allontanare il lavoratore dall’organizzazione del lavoro. È contraddittorio affermare che il licenziamento è legittimo solo se ricorrono simili ragioni, ma che, anche se le stesse non ricorrono, il licenziamento ugualmente produca l’effetto di risolvere il rapporto di lavoro e consentire che il lavoratore sia compensato solo con il risarcimento del danno subito. Del resto, è evidente come, in mancanza di una tutela reintegratoria, tutti i diritti che la legge o il contratto collettivo riconoscono ai lavoratori siano scritti sull’acqua: nel timore di essere licenziato, il lavoratore rinunzierà sempre a farli valere, perlomeno finché dura il rapporto. Non si tratta – come dice qualcuno – di una semplice asimmetria di informazioni, ma di una asimmetria di potere: la garanzia della reintegrazione è la chiave di volta dell’effettività di tutti i diritti che l’ordinamento giuridico riconosce ai lavoratori. Non è certo un caso che i tassi di sindacalizzazione calino fino allo zero nelle imprese fuori del campo di applicazione dell’articolo 18. Un argomento a sostegno della proposta ha, però, un suo fondamento: se l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro interviene dopo molti anni dal licenziamento, il costo della sanzione per l’impresa è rilevante e, in qualche caso, insopportabile; del resto – si aggiunge – in tali casi anche il lavoratore non ha più interesse all’effettiva reintegrazione, preferendosi una soluzione transattiva che monetizzi il diritto alla reintegrazione.

Deve, però, osservarsi anche che – se la reintegrazione avvenisse dopo breve termine – il costo del licenziamento illegittimo per l’impresa sarebbe esiguo. Ma allora, il problema non è l’obbligo di reintegrazione, ma i tempi del processo. Per rimediare a questo inconveniente sarebbe sufficiente assicurare una corsia preferenziale a questi processi e pervenire in tempi brevi alla soluzione della controversia.

8. Possiamo certo parlare di crisi dello Statuto dei lavoratori perché è l’assetto delle relazioni industriali che ha prodotto lo Statuto a non esserci più. Lo Statuto è stata la legge sindacale organica di un sistema di relazioni industriali che faceva perno sulle grandi aziende fordiste e a questo deve la sua fortuna. Gli anni successivi hanno nuovamente spostato il perno del sistema produttivo nella cosiddetta fabbrica diffusa; la frammentazione – anche giuridica – del lavoro ha fatto perdere centralità all’operaio massa della grande fabbrica. Il sindacalismo confederale, se vuole mantenere la sua rappresentanza generale, non può più farlo a partire da quest’ultimo, ma deve seguire la via estremamente più difficile di proporla a partire dalle differenze di interessi dei diversi gruppi che intende rappresentare. Insomma, se lo Statuto non è più in grado di informare a sé l’intero mondo delle relazioni sindacali perché le stesse sono cambiate profondamente, è ancora in grado di regolare le relazioni di lavoro interne alle imprese grandi e medie che sono pur sempre un pezzo di decisiva importanza del sistema produttivo.

Questi limiti non tolgono attualità a gran parte dei contenuti normativi dello Statuto: lo abbiamo visto in relazione alle norme a tutela della libertà e dignità dei lavoratori; lo abbiamo visto per ciò che riguarda le norme di sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro, pur nella modificazione dei criteri di riferimento; lo vediamo – in sintesi – nell’essere norme di attuazione, per quanto riguarda il lavoro, della Costituzione, patto fondamentale della nostra convivenza. Un arretramento da questa trincea avanzata, lungi dal consentire una migliore rappresentanza dei lavori produttivi diversi da quello dell’operaio della grande azienda, al contrario ne negherebbe radicalmente i presupposti.

In realtà, lo Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico ben più forte e più ampio di quello che sia il suo pur importantissimo contenuto normativo. Così è stato prima della sua approvazione, quando era la bandiera intorno alla quale si sono radunate grandi masse di lavoratori contro l’assetto di potere esistente nei rapporti di produzione; così ha continuato a essere quando le modificazioni avvenute nei rapporti di forza interni al sistema di produzione hanno consentito agli imprenditori di riconquistare province perdute in precedenti fasi di lotta nel nome della necessità di profonde ristrutturazioni dell’apparato produttivo. E questo valore simbolico è ancora quello che era nella proposta di Di Vittorio, che i rapporti di produzione sono subordinati ai valori costituzionali, che il lavoro non è una merce, che il lavoro deve essere strumento di promozione della persona umana e di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del nostro paese.

Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari