“È tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro, garantendo anche adeguate condizioni per il suo svolgimento. Ciò implica, da un lato, reperire nuovi modi per coniugare la flessibilità del mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative, indispensabili per lo sviluppo umano dei lavoratori; d’altra parte, significa favorire un adeguato contesto sociale, che non punti allo sfruttamento delle persone, ma a garantire, attraverso il lavoro, la possibilità di costruire una famiglia e di educare i figli”. Così papa Francesco di fronte al Parlamento Europeo il 25 novembre scorso. Nelle parole di Bergoglio ci sono i riferimenti classici alla dottrina sociale della Chiesa riguardo alla dignità dell’uomo e alla costruzione della famiglia. Ma c’è anche un concetto nuovo: il riconoscimento della flessibilità richiesta dal mercato che deve essere coniugata con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative. Un’impostazione che sembra ricalcare il modello della Flexicurity che tanta fortuna ha avuto nei documenti dell’Unione in questi anni e che è stato richiamato più volte da chi ci governa. Vediamo allora di capire di cosa si tratta.

La flessibilità ha molte facce. La flessibilità interna riguarda la facilità di assumere e licenziare, ma anche la possibilità di fare contratti per poche ore a settimana, per periodi brevi, per scopi specifici o di prendere il lavoro in affitto da agenzie interinali. Tutte formule già esistenti nella legislazione italiana. A queste si sono aggiunte formule improprie, come la rotazione tra lavoratori in esercizio e altri in cassa integrazione, e formule di riduzione temporanea della manodopera, come i contratti di solidarietà. Per queste ultime si parla di solito di flessibilità interna, che però più propriamente è la possibilità di impiegare lo stesso lavoratore per incarichi differenti e orari variabili. Questa ultima in Italia è spesso oggetto di negoziazione contrattuale e negli ultimi anni si è molto estesa, ma nella piccola impresa è sempre stata la prassi concreta di ogni giorno, a prescindere dal contratto. Oggi è tema del Jobs Act laddove si parla di demansionamento a parità di salario.

Infine, c’è una flessibilità che potrebbe riguardare i salari. Se però si chiede al lavoratore di dare il suo contributo nei momenti difficili, gli si deve dare anche la possibilità di guadagnare di più nei momenti buoni e soprattutto di dire la sua sulle strategie industriali dell’impresa, come succede in Germania. Quello che finora è mancato in Italia è l’altro corno della Flexicurity, vale a dire le politiche di sostegno del reddito dei lavoratori flessibili (contratti precari e partite Iva) e di reinserimento di questi lavoratori nel mercato del lavoro. Ecco perché oggi si dice che il mercato è duale, cioè diviso tra lavoratori quasi privi di tutele e lavoratori che sono accusati di averne fin troppe. Il problema allora non è flessibilizzare ancora, ma dar vita a un sistema di tutele della dignità (reddito, casa, servizi) e di formazione permanente (lifelong learning), che comporta spendere di più nelle politiche sociali e avviare una forte cooperazione tra Stato, imprenditori, sindacati e istituzioni, per costruire una rete di servizi tra pubblico e privato no-profit.

Sembra invece che da almeno un decennio il modello dei nostri governi sia il workfare anglosassone, nato con Nixon e dilagato in Europa tramite la Thatcher e consistente nello spingere al lavoro le persone per evitare che restino intrappolate nei sostegni del welfare. L’idea è spingere il disoccupato ad accettare qualsiasi occupazione, ampliando il più possibile la platea dei lavori a bassa remunerazione. Dal 1983 al 2012, in Gran Bretagna il numero di famiglie con la mancanza di 3 o più elementi di base per una vita dignitosa sono cresciute dal 14 al 33 per cento, nonostante che il Pil sia raddoppiato e il tasso di occupazione cresciuto, arrivando ai massimi livelli europei. E questo nonostante che la brutalità del workfare sia stata attenuata dal welfare to work di Tony Blair. In Germania, la riforma Hartz (governo Schroeder) ha introdotto milioni di mini job, midi job e interinali, ma con sostegni sociali.

Il nostro destino sembra più simile a quello britannico, ma senza i soldi del petrolio scozzese e della finanza della City londinese. Forse la Danimarca è per noi un modello inarrivabile, e allora andiamo a vedere un paese più simile a noi. In Francia per tutti i lavoratori (non solo quelli a tempo indeterminato) che perdono l’impiego c’è il Projet personnalisé d’accès à l’emploi, un programma di reinserimento che prevede un obbligo alla formazione e la possibilità di rifiutare offerte inferiori al 95 per cento del precedente salario, che diventa dell’85 dopo 6 mesi, e salari comunque superiori al salario minimo dopo un anno. L’offerta di lavoro deve stare dentro i 30 chilometri nei primi 6 mesi, e poi entro i 60, ma vi sono aiuti economici per chi va più in là (Aide à la mobilité). Per qualunque cittadino che sia in condizioni di indigenza c’è il Revenu de solidarité active, un assegno di 500 euro al mese per chi abbia un Isee del nucleo di convivenza al di sotto di una certa cifra, che perde solo se rifiuta un lavoro dignitoso. È un reddito che si aggiunge ai piccoli redditi da impieghi precari in modo da non trattenere i beneficiari dall’accettare lavori minori. Un ottimo strumento nelle mani dei servizi sociali, che sono incaricati di valutare le condizioni di disagio delle persone, di cui nel 2013 hanno beneficiato 2,3 milioni di persone, con una spesa di circa 14 miliardi di euro.

In Italia, invece, si proclamano programmi di aiuto per i lavoratori precari, ma poi si mettono in bilancio solo briciole. Ma un altro problema resta aperto. Le politiche di riqualificazione della manodopera da noi rischiano di servire a poco, perché la domanda di impieghi qualificati è da anni in declino. Spendiamo per far studiare i ragazzi e poi li mandiamo a lavorare all’estero. Se lo Stato non smette di buttare soldi in sconti fiscali a pioggia e non decide di investire in ricerca, innovazione, nuove tecnologie, ambiente e beni culturali, il declino del paese continuerà inesorabile.

* Docente di Scienza dell’amministrazione all’Università di Urbino