È sorprendente scoprire come l'Italia sia arrivata a ignorare, persino a manipolare le sentenze sui diritti delle donne. Eppure questo è accaduto dopo le recenti decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali sulla mancata applicazione della legge 194. All'origine c'è l'alto numero dei medici obiettori, pari al 70% dei ginecologi ospedalieri con punte del 90% nel Sud. 
Numeri che rendono difficile l'interruzione di gravidanza volontaria regolata dalla famosa legge del 1978. Una situazione che negli ultimi due anni ha fatto guadagnare al governo altrettante condanne: la prima nel 2014, totalmente ignorata; la seconda (pubblicata lo scorso 11 aprile dopo sei mesi di embargo) giunta in seguito a un reclamo presentato dalla Cgil. In questo caso una risposta da parte del ministro della Salute Beatrice Lorenzin c'è stata, ma non convince affatto. La sua prima reazione è stata di “stupore”, nonostante la sentenza fosse stata notificata a ottobre dell'anno scorso proprio per dare all'esecutivo il tempo di porre rimedio; la seconda, più articolata, l'abbiamo letta – questa sì con stupore – nel testo dell'informativa alla Camera. La ministra ha addirittura raccontato – perché di brutti racconti si tratta – che il richiamo europeo “non è definitivo, contrariamente a quanto riportato da gran parte degli organi di stampa”. Sono poi seguite amenità varie, come l'affermazione che il numero di medici non obiettori “risulta congruo, anche a livello sub-regionale, rispetto alle interruzione volontarie di gravidanza effettuate”. 
Insomma, visto il clamore mediatico, ha fatto ricorso al falso.

Ma la notizia strabiliante data da Lorenzin alle parlamentari e ai parlamentari è che la legge 194 “non ha sancito il diritto delle donne all'interruzione volontaria di gravidanza”, bensì sarebbe finalizzata a garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Come a dire, tante battaglie per niente. Battaglie che hanno portato circa quarant'anni fa alla faticosa conquista di quella legge nata non per il diritto all'aborto, ma per il diritto di decidere quando e se diventare madri, affinché le donne fossero libere di scegliere del proprio corpo, per non convertire i diritti in delitti. A questo punto, non ci è chiaro se tanta pervicacia da parte del ministro sia mossa da malafede o da mancata conoscenza o, più probabilmente, da entrambe le cose. In ogni caso, siamo di fronte a una sentenza vera a tutti gli effetti e dunque Lorenzin farebbe bene ad assumere l'impegno per garantire la piena applicazione della 194, anziché svilire quella legge.
 Per venirle incontro – tanta perseveranza richiede altrettanta determinazione – riassumiamo qui in otto punti il senso e il valore della recente sentenza europea.

1) La decisione è definitiva
In primo luogo, è stata accertata la violazione del diritto alla salute delle donne e del principio di non discriminazione (ed è la seconda volta che accade in due anni). Inoltre, viene stabilita la violazione del diritto al lavoro e del diritto alla dignità sul lavoro dei medici non obiettori, a causa della disorganizzazione degli enti ospedalieri e delle case di cura autorizzate. Infine, la sentenza stabilisce l'incapacità delle Regioni di controllare tale organizzazione, anche ricorrendo alla mobilità del personale, come richiede espressamente l’art. 9 della legge 194.

2) L’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Carta sociale europea
La Carta sociale europea è un trattato internazionale che l’Italia ha ratificato e reso esecutivo con la legge 30 del 1999; il nostro paese ha anche ratificato con la legge 298 del 1997 un protocollo addizionale.
 L'inosservanza di un trattato internazionale costituisce una violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione italiana.

3) Il ruolo del Comitato dei ministri
Non corrisponde al vero l’affermazione del ministro Lorenzin secondo cui, con la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, la procedura avviata dal primo reclamo collettivo sarebbe stata chiusa in senso favorevole.

 L’Italia, inoltre, è stata chiamata a rendere conto nell’ambito della seconda procedura di controllo della Carta sociale europea. Dopo la prima decisione di condanna, il governo ha affermato con il proprio rapporto nazionale del 15 maggio 2015 che non vi sono problemi nell’applicazione della 194, disconoscendo quindi la decisione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa.

4) La sentenza della Consulta
La legge 194 del 1978 recepisce le indicazioni e i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 27 del 1975. In quella sede fu dichiarata l’incostituzionalità della punizione penale per l’interruzione di gravidanza. 
La Consulta ha stabilito che non vi è equivalenza fra chi è già persona e chi persona deve ancora diventare.
 La legge 194 riconosce il diritto all’accesso al trattamento interruttivo della gravidanza solo laddove siano certificate e riscontrate condizioni attinenti alla salute fisica e psichica della donna.
 L’obiettivo è assicurare una procreazione cosciente e responsabile, con misure positive e concrete. A partire, per esempio, dall’educazione sessuale in tutte le scuole di ogni ordine e grado. L'Alta corte ha stabilito che si tratta di una disciplina a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo essenziale non può essere modificato o inciso o disapplicato se non a rischio di violare i principi costituzionali.

5) Le interruzioni di gravidanza clandestine
La riduzione delle interruzioni volontarie di gravidanza è un obiettivo auspicabile. Purtroppo, però, si deve sempre considerare l’aumento di episodi clandestini e/o autoindotti. La ragione è da ricondursi – come accertato dal Comitato europeo dei diritti sociali – alle difficoltà di accesso al servizio legale. 
Le donne sono infatti costrette a spostarsi da una struttura all’altra, nella stessa città, in regioni diverse o addirittura recarsi all’estero. Spostamenti che incidono in particolare sulle meno abbienti e sulle migranti, al contrario di quanto sostenuto dal ministero. 
Inoltre, c'è un numero oscuro non registrato dagli ospedali che non prendono in carico le richieste. 
Ci auguriamo dunque che non venga attuata la posizione espressa dal ministro nel corso della procedura davanti al Comitato europeo – ma anche nella relazione al Parlamento – ossia l’intenzione di riorganizzare i servizi diminuendo i centri per l’interruzione di gravidanza perché sarebbero proporzionalmente più numerosi dei centri per la nascita.

6) L'occasione mancata
Il governo italiano ha chiesto una pubblica udienza al Comitato europeo dei diritti sociali. In quella sede, il 7 settembre 2015, l'esecutivo e il ministero della Salute non hanno potuto affermare che tutti i casi di disapplicazione o insoddisfacente applicazione della 194 erano stati risolti. Né hanno dato riscontro alle decine di atti di sindacato ispettivo depositati in Parlamento. In pratica, l'Italia ha sempre negato i problemi accertati dal Comitato europeo limitandosi a proporre un'attività di monitoraggio o semplici corsi di formazione per gli operatori (peraltro già previsti dalla 194 all'artiocolo 15). Il Comitato europeo, inoltre, afferma in più passaggi che il governo italiano non è riuscito a dimostrare l’infondatezza della documentazione e dei dati forniti dalla Cgil.

7) Lo scaricabarile sulle Regioni
Nel corso della procedura davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, il governo italiano e il ministero della Salute hanno tentato di scaricare ogni responsabilità sulle Regioni, affermando che eventuali criticità sono dovute alla modalità organizzativa sui territori e che le Regioni stesse hanno inviato al ministero dati non completi e parziali. La giurisprudenza, però, stabilisce che gli Stati membri non possono sottrarsi agli obblighi assunti scaricando le responsabilità sugli enti territoriali.

8) In attesa della prossima relazione ministeriale
Anche quest'anno il ministero della Salute ha deciso di presentare la relazione al Parlamento “dopo l’estate”, dunque oltre il termine di febbraio sancito dalla legge 194. Interrogato dal Parlamento sull'ennesimo ritardo, il dicastero ha risposto che si può continuare con questa prassi, oppure si può modificare la legge posticipando l’obbligo di presentazione.




Loredana Taddei è responsabile politiche di genere Cgil nazionale