Introduzione al convegno Ires e Cgil Emilia-Romagna svoltosi a Bologna il 29 Maggio 2015.

“Anche il sindacato deve cambiare”. Quante volte l'abbiamo detto, ma soprattutto quante volte ce lo siamo sentiti ripetere in questi anni. “Tutto cambia tranne voi”. E spesso quelli che ce lo dicevano alzavano il dito indice con aria di rimprovero. Con l'accusa, implicita ma anche a volte esplicita, di essere retrogradi, conservatori, irrimediabilmente nostalgici dei gloriosi anni d'oro del sindacato. Insomma, quelli del telefono a gettone, del mangianastri e della Fiat Centoventotto.

In verità, è impossibile incontrare qualcuno, in Cgil, che si pronunci contro il cambiamento e la sua necessità. La consapevolezza che molte cose non funzionano nella complessa macchina di quella che nonostante tutto rimane la più grande organizzazione di massa del nostro Paese, è ampiamente diffusa. Quando però si passa a discutere non più se cambiare, ma come cambiare, le cose si complicano enormemente. Non ci sono solo visioni diverse, ma anche visioni spesso un po' nebulose, nel senso che non se ne comprende bene l'orizzonte.

I distinguo si moltiplicano, riflettendo inesorabilmente la grande articolazione, territoriale e funzionale, di un corpo organizzativo da tempo caratterizzato da legami sempre più deboli, con tutti i vantaggi ma anche le criticità che questo comporta. Cosicché, alla fine, gli unici cambiamenti che appaiono realmente a portata di mano rischiano anche di essere, spesso, cambiamenti di portata limitata. Ci sarebbe, per la verità, un tipo di cambiamento abbastanza facile da perseguire, ma è un tipo di cambiamento che la stragrande maggioranza della Cgil – giustamente credo – respinge.

È il cambiamento di tipo “adattativo”, che porterebbe sostanzialmente ad adeguarsi alle modificazioni già in gran parte intervenute, o comunque in corso, nel sistema della rappresentanza politica ed istituzionale. Del resto, la rappresentanza sociale è stata efficacemente raffigurata come il terzo lato di un unico triangolo del quale partiti e istituzioni costituiscono i rimanenti due lati. Difficile immaginare che possano, nel lungo periodo, perseguire orizzonti e modelli organizzativi radicalmente diversi. Il triangolo non può rimanere a lungo spezzato, prima o poi i suoi lati si ricompongono in un nuovo compromesso.

Diversi studiosi hanno ben descritto il cambiamento in corso nel sistema politico istituzionale. Si potrebbe così riassumere, in “pillole”: i poteri - istituzionali e non solo - si accentrano verticalmente a livello sovranazionale, verso luoghi sempre più difficilmente identificabili, e contemporaneamente si concentrano negli organismi esecutivi; il modello delegato e “parlamentare” della democrazia perde consenso, da molti non viene più giudicato adeguato a rispondere con efficienza ai tempi brevi della comunicazione e della decisione in un mondo non solo globalizzato ma costantemente “online”; finita, forse ormai irrimediabilmente, la stagione dei grandi partiti di massa, i partiti tornano ad essere null'altro che articolazioni organizzative dei soggetti istituzionali, il cui compito principale si esplica nel momento elettorale, quando funzionano sostanzialmente da “agenzie di reclutamento che individuano dei candidati alle varie cariche pubbliche” (P.Ignazi in Aa.vv. - Il triangolo rotto – Laterza, 2013); si afferma in questo quadro la centralità del rapporto diretto tra chi governa e l'opinione pubblica, ovvero il popolo.

Ovvio che in un quadro di questo genere risulti fortemente compresso lo spazio della rappresentanza sociale, alla quale non si riconosce più alcuna valenza di carattere generale, ma solo, al massimo, di legittima tutela di interessi molto parziali. In una logica di “adattamento”, l'unico spazio vero che rimane per un soggetto della rappresentanza sociale è quindi quello di misurarsi a livello decentrato, territoriale ma prevalentemente aziendale, sugli effetti delle scelte politiche e sociali alle quali gli è stata comunque preclusa la possibilità di concorrere.

È senz'altro una forma di rappresentanza degli interessi, ma che si svolge dentro un recinto talmente angusto, talmente parziale e limitato, da indurre inesorabilmente scelte e comportamenti di carattere corporativo. Ci possiamo scommettere: quegli stessi che oggi ci suggeriscono di imboccare questa strada sarebbero a quel punto i primi pronti a rialzare il dito del rimprovero per accusarci di tutelare interessi troppo ristretti e quindi corporativi. Per tanti motivi, si tratterebbe di una prospettiva del tutto indigeribile per una organizzazione come la Cgil, che ha troppo radicato nel proprio dna il tema del nesso tra rappresentanza parziale e rappresentanza generale.

Ma tra il non accettare questa deriva e il costruire davvero una diversa prospettiva di cambiamento, che tenga comunque conto di un quadro generale profondamente mutato, c'è un salto difficile da compiere. Così che spesso il rischio diventa, in assenza di alternative chiare e condivise, quello di rimanere sostanzialmente ancorati a modelli del passato, alla riproposizione di ricette che in altre epoche furono vincenti e che proprio per questo risulta difficile abbandonare. Magari rimuovendo, sostanzialmente, la portata dei cambiamenti avvenuti in questi anni, non solo nel sistema politico-istituzionale, ma anche in quello economico-sociale.

Servono dunque idee davvero nuove, oltre che alternative a quel cambiamento adattivo che ho provato a descrivere. Alla loro genesi, un contributo possono offrirlo le ricerche “sul campo” compiute in questi mesi da alcuni Ires regionali. Mi riferisco in particolare a due di queste: quella di Davide Dazzi su I delegati sindacali in Emilia-Romagna e quella di Vladimiro Soli e altri Sindacalisti e politica. Un'inchiesta tra Veneto e Lombardia.

Il valore di queste ricerche sta soprattutto nella loro capacità di affrontare in modo “vivo”, attraverso le parole e le risposte di numerosi delegati e funzionari sindacali, alcuni nodi che stanno al centro anche della ormai imminente conferenza d'organizzazione della Cgil: il rapporto tra sindacato e politica; la qualità dei percorsi decisionali, quindi la qualità della democrazia; la capacità di inclusione sociale, cioè di andare oltre il campo nel quale il sindacato è abituato ad esercitare la propria funzione di rappresentanza.

* Presidente Ires Emilia-Romagna