Servitori dello Stato per alcuni, “servi del potere” per altri, operatori della sicurezza nella definizione più corretta. In realtà, molto più semplicemente, lavoratori e lavoratrici della sicurezza: sono i 315 mila donne e uomini che svolgono la propria attività in divisa presso i corpi di Polizia, civili e militari. Ma c’è una figura che nel corso dei decenni si è rivelata retorica e, paradossalmente, dannosa per questi lavoratori: quella del “caduto in servizio”, termine che rimanda a una morte da ricordare, da celebrare, cui destinare rispetto, ma non certo da analizzare nella sua dimensione di vittima sul lavoro.

Guardiamo anzitutto i numeri. Nel periodo compreso tra il 2000 e il luglio 2015, con riferimento alla sola Polizia di Stato, i lavoratori deceduti durante la propria attività sono stati 114. La prima causa di decesso è rappresentata dagli incidenti stradali in servizio (sono 54, pari al 47,4 per cento), la seconda quelli in itinere (33, pari al 30 per cento) e la terza gli incidenti aerei (7, circa il 6 per cento). Va osservato che i decessi per conflitto a fuoco e per “fuoco amico” sono sei, praticamente equivalenti a quelli per infarto in servizio e per patologia contratta in servizio, che sono cinque. Un lavoro quindi come tutti gli altri, che ti può uccidere a distanza di anni o per cause indirette rispetto al principale elemento di rischio.

I suicidi tra i poliziotti sono in costante aumento. E nei primi sette mesi del 2015 si è raggiunto il numero più alto registrato in un anno


Questi lavoratori in divisa li vediamo in mille occasioni. Sono presenti eppure sono distanti, se non addirittura invisibili, esclusi sistematicamente da ogni analisi sociologica e da ogni statistica ufficiale. Un esempio? I suicidi. Per averne una stima occorre raccogliere le poche righe presenti nelle pagine di cronaca dei quotidiani locali, oppure affidarsi ai dati offerti dall’Osservatorio dell’Associazione Cerchio Blu.
 

 

Proviamo anche qui a offrire qualche dato. Dal 1998 al luglio del 2015 nei vari corpi di Polizia si sono registrati 231 suicidi. Nella sola Polizia di Stato se ne registrano 66: un dato annuale che a partire dal 2009 cresce costantemente (tranne una lievissima flessione nel 2012-2013), nonostante l’organico complessivo sia diminuito in questi anni di oltre 10 mila unità. E ancora: l’evento “suicidio” presenta numeri superiori alla prima causa di morte sul lavoro (gli incidenti stradali in servizio, come dicevamo sopra), e nei primi sette mesi del 2015 si è raggiunto il numero più alto di suicidi registrati in un anno.

Da sempre il Dipartimento della Pubblica sicurezza tenta di ridurre la dimensione del fenomeno, affermando che il tasso di suicidi nella Polizia di Stato è in linea con quello del resto della popolazione. Purtroppo non è così, e basta confrontare questi numeri con quelli ufficiali dell’Istat relativi ai suicidi registrati nel resto della popolazione per rendersene conto (in Polizia il tasso dei suicidi è di circa il 9 per mille, mentre nel resto della popolazione è intorno al 6-7 per mille). Va anche sottolineato, inoltre, che nella categoria “resto della popolazione” rientrano anche persone in condizioni oggettive o soggettive svantaggiate oppure in preda alla disperazione (come può esserlo un disoccupato di lunga durata o chi è affetto da disturbi mentali), mentre i lavoratori della Polizia di Stato sono sottoposti prima dell’assunzione a test e visite specialistiche, sono quindi anche psicologicamente selezionati.

Vanno registrate, infine, anche le contraddizioni interne del sistema, in particolare nella Polizia di Stato. Si segnala l’assenza di concrete iniziative (anche da parte nostra, delle organizzazioni sindacali, troppe volte ferme al comunicato-spot in occasione di un tragico evento) del Dipartimento della Pubblica sicurezza, che ha visto, ad esempio, non dare il dovuto risalto a un importante libro (Caduti senza l’onore delle armi, edizioni Laurus Robuffo) sul tema scritto da Luigi Lucchetti, dirigente superiore medico del Servizio sanitario della Polizia di Stato. Da parte delle istituzioni, insomma, si rileva la mancanza dell’obbligo deontologico e morale di intraprendere iniziative, rivolte sia a prendersi cura della dimensione umana del lavoratore della Polizia di Stato sia a garantire al cittadino che quel lavoratore, così presente nella sua quotidianità, non attraversi condizioni di temporanea difficoltà personale che possono avere riflessi sulla propria attività lavorativa.

* Rls Silp Cgil Roma