Matteo Renzi non è andato all’assemblea di Confindustria, lo scorso 29 maggio, ma ha fatto sapere che sarà presente alle assemblee degli industriali di Vicenza e di Treviso. Non è un bel segnale per Giorgio Squinzi. Vuol dire che il premier non considera importante la Confindustria, ma tiene agli imprenditori. Non è proprio la stessa cosa e soprattutto non è la stessa cosa per la confederazione, perché nel lungo periodo la differenza si sentirà e forse anche pesantemente. La concertazione non è stata amata dagli ultimi governi che si sono succeduti dopo Romano Prodi. Berlusconi convocava le parti sociali due ore prima del Consiglio dei ministri che doveva prendere le decisioni più importanti. Mario Monti odiava la concertazione e per quanto ha potuto ha deciso tutto senza sentire nessuno. Enrico Letta aveva giurato che non avrebbe mosso foglia prima di sentire sindacati e imprenditori, ma poi nemmeno lui ha fatto vera concertazione.

Matteo Renzi è andato molto al di là, ha detto chiaramente che per quanto lo riguarda la concertazione è finita perché inutile, anzi dannosa. In realtà non è così, non dovrebbe essere così, perché la concertazione altro non è che uno strumento che la politica può utilizzare per governare le società complesse come la nostra. Se prima di prendere provvedimenti particolarmente complessi, che toccano da vicino gli interessi di vaste aree del paese, un governo trova un accordo con chi rappresenta quegli interessi gli sarà poi più facile applicare quei provvedimenti. Senza nessun obbligo per nessuno, senza costituire così dei diritti di veto. Uno strumento, appunto. Ma se un governo non lo vuole utilizzare, non per questo ne nasce un problema di democrazia. C’è da chiedersi però cosa questo atteggiamento di Renzi, questo voler escludere la concertazione, comporterà per le parti sociali, soprattutto per la Confindustria.

Nella relazione che ha presentato all’assemblea Squinzi non ha mostrato di preoccuparsene più di tanto. Non ha mai pronunciato la parola concertazione, non ha manifestato alcun rimpianto per il dialogo con il governo. Si è limitato a chiedere al governo le riforme che erano state promesse, magari anche qualcuna in più. Hai avuto i voti che ti servivano, ha detto al premier, adesso fai quello che hai detto di voler fare e che il paese ti chiede di fare, le riforme. Del resto è un suo mantra quello di preferire il fare al dire. Solo che in questo modo non ha soltanto riconosciuto il primato della politica, ma ha cancellato il ruolo politico che la Confindustria ha sempre avuto in tanti anni. Non ha nemmeno detto come vuole le riforme, si è limitato a indicare qualche particolare, senza entrare nel merito. Questo è un problema serio per la Confindustria, perché se la confederazione non ha interlocuzione con il governo sui temi della politica economica esce immediatamente dal confronto più generale, anche su quello per la politica industriale, che è invece proprio ciò che più chiedono i suoi associati, gli industriali che non sanno dove dirigere i propri investimenti.

Sono anni che di politica industriale vera in pratica non se ne fa nel nostro paese, si potrebbe dire fin dagli anni settanta, e la conseguenza è stata la perdita di interi settori industriali, fondamentali per un’economia avanzata. Si fa tanto dire sul fatto che gli industriali di casa nostra non investono, ma c’è da tener presente anche che nessuno li ha aiutati, nessuno ha indicato con precisione dove e perché investire. C’è poi da osservare che in questo modo la Confindustria sarebbe sempre meno un punto di riferimento per l’imprenditoria nel suo insieme. È indiscutibile la leadership che Confindustria ha sempre esercitato negli anni su tutto il mondo imprenditoriale. Le altre grandi confederazioni non hanno mai avuto un ruolo uguale a quello di Confindustria, ma questa posizione di rilievo, che una volta poteva venire dal peso economico e sociale dell’industria, adesso che il terziario è diventato di gran lunga più importante, come valore aggiunto generato e come occupazione e soprattutto nuova occupazione, viene proprio dal fatto di essere partner o quanto meno interlocutore privilegiato del governo.

E c’è anche da osservare che la caduta della concertazione non è dovuta solo alla cattiveria di un leader politico che snobba gli industriali, perché l’appannamento al quale assistiamo adesso, e che ha portato alla caduta anche della concertazione, è la diretta conseguenza di una caduta di autonomia da parte della stessa Confindustria, dal legame troppo stretto che la confederazione ha avuto in questi anni con il potere politico, quando c’è stata un’accettazione troppo ampia delle decisioni del governo. Una caduta di ruolo, quindi. Né è da credere che Confindustria possa poggiare troppo una sua leadership sulla contrattazione, che pure è l’attività tradizionale della confederazione, la vera causa che portò un secolo fa alla sua costituzione. Ormai, ed è la Confindustria a dirlo, come ha fatto Squinzi nella sua relazione all’assemblea, la contrattazione si svolgerà per lo più nelle sedi decentrate, soprattutto in azienda e nei territori. È lì che si genera il valore aggiunto ed è lì che si può misurare quanto deve e può crescere il salario, in stretto collegamento con la dinamica della produttività. La contrattazione aziendale è però sostanzialmente svolta dalle aziende medio-grandi, che sono quelle che hanno meno bisogno della confederazione, perché perfettamente in grado di svolgere da sole i negoziati con la controparte sindacale. Al più, queste aziende possono appoggiarsi alle associazioni territoriali, che non a caso sono destinate ad assumere dentro il mondo confindustriale un ruolo sempre maggiore a danno delle associazioni di categoria che, con il decadere del contratto nazionale, non potranno non perdere di importanza e quindi di forza.

Questo insieme di cose che effetto avrà sulla confederazione? Perderà di peso oltre che di ruolo? L’esempio della Fiat sarà seguito da altre imprese? Questo non è per nulla scritto, perché comunque all’interno del mondo imprenditoriale il prestigio di Confindustria resta alto. Il fatto stesso che due anni fa l’uscita della Fiat non abbia provocato una valanga, come pure molti si aspettavano, dimostra che la tenuta associativa è più forte di quanto non si creda. Se Confindustria deve perdere associate, non è certo un problema di adesso, perché tutto sembra far credere che avvenga proprio il contrario e non è un caso se ogni anno cresce il numero delle aziende associate, giunto al livello di 150.000, una cifra altissima. Semmai c’è da chiedersi dove porterà la disputa legata alla natura degli associati alla confederazione. Un paio di anni fa sono stati in molti a sottolineare la diversità che esiste tra le aziende private e quelle pubbliche, e che sarebbe stato bene se queste ultime fossero uscite dalla confederazione. In molti si sono chiesti se non fosse più giusto tornare a dividere i destini.

La Marcegaglia non volle dare spazio a queste richieste, ma il tema non è mai stato archiviato. Ed è tornato di moda dopo che Squinzi ha reso noto il team di presidenza della seconda metà del suo mandato. Il presidente ha infatti cancellato dalla lista dei vicepresidenti i responsabili di Eni ed Enel. C’era un motivo preciso, perché al momento dell’indicazione il loro mandato era scaduto, ma non erano ancora stati nominati i nuovi vertici. Fatto è che nemmeno dopo la loro indicazione l’elenco dei vicepresidenti è stato rivisto, né c’è alcun segnale che ciò si voglia fare. Per cui è da credere che le ex Partecipazioni statali non avranno diretti rappresentanti al vertice dell’organizzazione, al cui finanziamento peraltro contribuiscono in maniera molto pesante. Una situazione che non sembra poter continuare a lungo, perché nessuno ha piacere a essere considerato cittadino di serie B.