Vorrei ricordare solo alcuni dati: secondo gli ultimi rilevamenti di Eurostat tra il 2004 e il 2014, il tasso di occupazione femminile in Italia è sostanzialmente ben al di sotto dell’agognato 60 per cento, indicato nel Trattato di Lisbona come obiettivo prioritario; e la crisi ha fatto registrare una flessione di due punti percentuali. In dieci anni, si è passati dal 57,7 al 55,7 per cento delle occupate. Si potrebbe obiettare che gli effetti della cattiva congiuntura economica abbiano giocato un ruolo determinante, ma questo dovrebbe valere anche per gli altri Stati membri, considerando la dimensione internazionale del crollo finanziario. Eppure non è così: in Germania, nello stesso periodo, il tasso di occupazione femminile è addirittura cresciuto di quasi nove punti percentuali, dal 65 per cento (2004) al 73,8 per cento (2014). La Francia, pur posizionandosi a livelli più bassi, ha avuto lo stesso trend, passando dal 63,7 per cento, dato 2004, al 64,3 per cento (2014). Il Regno Unito ha sostanzialmente mantenuto il tasso di occupazione delle donne oltre il 70 per cento; anzi ha registrato un leggero incremento di due decimali (dal 71,7 nel 2004 al 71,9 per cento del 2014).  

La riflessione che ne scaturisce è che l’Italia sembra non aver modificato la propria immagine, né prima né dopo la crisi, confermandosi all’ultimo posto tra i paesi più industrializzati dell’Unione europea. Le donne italiane hanno le stesse difficoltà di prima ad inserirsi nel mercato del lavoro e anche quando ci riescono, spesso sono impiegate in lavori precari, sotto pagati e con difficoltà non trascurabili nel conciliare lavoro e vita, lavoro e maternità, lavoro e realizzazione di sé stesse. Il risultato è che ci sono 2,3 milioni donne inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario e il 45% vive al sud. Si stima che 270.000 di loro non abbiano cercato lavoro a causa dell'inadeguatezza dei servizi di cura forniti a bambini, anziani, malati e disabili (McKinsey Analysis 2012). Secondo l’Istat, il 18% delle donne inattive sarebbe disponibile a lavorare se solo i servizi fossero adeguati.

In Italia, le politiche di genere che, a corrente alternata, vengono proposte soffrono della mancanza di una visione strategica complessiva, in grado di incoraggiare l’occupazione femminile, nonostante questo indicatore sia considerato da tutti indispensabile per riaffermare un percorso virtuoso di sviluppo economico. La legge di Stabilità non fa che confermare questa scelta, offrendo una serie di misure frammentarie e sparse un po’ come briciole su una tovaglia, che finiscono per essere ininfluenti rispetto al grande bisogno di cambiare la direzione delle politiche di genere.

Il più “microscopico di questi provvedimenti” è il raddoppio dei giorni di congedo obbligatorio riconosciuto ai padri – da uno a due giorni (!!!) – per favorire la corresponsabilità genitoriale rispetto ai figli. Nonostante questo, restiamo il fanalino di coda in Europa. Nella manovra, sono confermati i due giorni di congedo facoltativo per i papà lavoratori che, però, vengono addirittura sottratti dalla durata del congedo obbligatorio della madre. In sostanza, disposto che sono quattro i giorni di congedo complessivo, la legge di Stabilità prevede che il padre raddoppia, ma alla madre continuano ad essere sottratti due giorni. Se questo è quello che si intende per condivisione genitoriale, siamo  davvero molto distanti dal resto dell’Europa.

Le altre misure contenute nella legge finanziaria non sono delle novità perché riguardano il prolungamento per il 2016 di alcune norme già in vigore, come i voucher baby sitting o asilo nido, con l’aggiunta, per ora solo sulla carta – perché deve essere confermata da un decreto da emanare entro 60 giorni –, di estendere questa opportunità alle lavoratrici autonome e alle libere imprenditrici.

Se si osservano le norme contenute nel decreto attuativo del Jobs Act (n.80/2015), il profilo qualitativo complessivo degli interventi sulle politiche di genere in Italia resta inadeguato rispetto ai problemi strutturali del mercato del lavoro e alla mancanza di una visione generale e organica, indispensabile per incoraggiare l’occupazione femminile e, dunque, lo sviluppo economico del paese.  È certo positivo aver introdotto il congedo a ore; aver innalzato l’età dei figli/e per usufruire del congedi parentali retribuiti (al 30 per cento dello stipendio, però) e non; positivo è anche aver sancito il principio dell’automaticità dell’indennità di maternità e di paternità per le lavoratrici iscritte nella gestione separata anche quando il committente non versa i contributi; positivissimo l’aver inserito il diritto delle donne, vittime di violenza e inserite nei percorsi di protezione, ad astenersi dal lavoro.

Sono segnali di attenzione, indubbiamente, ma se in capo a ciascuna donna pesa il principio generale della “licenziabilità facile”, che sembra prevalere sulle politiche generali di riforma del mercato del lavoro (come si sta traducendo il Jobs Act), il castello di queste misure cade miseramente. Vorrei ricordare che in Italia la maternità rappresenta ancora oggi un rischio concreto di fuoriuscita dal mercato del lavoro: secondo il rapporto Istat del 2015, il 22,4% delle madri impiegate prima della gravidanza, intervistate dopo due anni, avevano perso il lavoro. In sostanza, quasi un donna su quattro vive la maternità come un ostacolo all’inserimento lavorativo.

Le buone intenzioni non bastano a farle diventare realtà. Agli sportelli del Patronato, quotidianamente, vengono donne in difficoltà che fanno fatica ad esercitare un proprio diritto, perché la frammentazione e la precarizzazione del lavoro prevale come pratica diffusissima e poco osteggiata, nei fatti, da leggi ispirate a mettere solo qualche “toppa”. Il Jobs Act non è una risposta efficace per invertire la rotta perché troppo sbilanciato verso gli interessi di impresa e poco attento ad affrontare il grave problema della scarsa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, che segna la differenza strutturale tra l’Italia e gli altri paesi europei.     

Morena Piccinini è presidente di Inca Cgil