Da anni ormai si denuncia il dualismo del mondo del lavoro, che contrappone insiders e outsiders, cioè lavoratori con contratti che prevedono garanzie, ferie, malattia, gravidanza, e altri con contratti privi di quasi ogni tutela. Premesso che in Italia resta l’anomalia del numero delle partite Iva individuali e del lavoro nero e grigio, su 3 milioni  e 470 mila nuovi contratti, quelli standard nel 2014 sono stati in prevalenza a tempo determinato (69% del totale: Il Sole-24 Ore del 18 marzo 2015) e in minor misura tempo indeterminato (15%) e apprendistato (2,9%), con i contratti atipici a rappresentare il rimanente 13,1%.

Per superare l’enorme numero di contratti a tempo determinato, il governo ha scelto di eliminare il vecchio contratto a tempo indeterminato e sostituirlo con un contratto che prevede la possibilità di licenziare individualmente e collettivamente in cambio del pagamento di una penale. Questa penale appare ancora più modesta per l’enorme sconto fiscale e contributivo temporaneamente associato al contratto, che rischia di drogare il mercato, come avvenne con gli incentivi alla rottamazione per il mercato dell’auto.

Il vecchio contratto a tempo determinato resta in vigore, ma i fortissimi sconti previsti favoriscono la conversione di vecchi e nuovi contratti verso quello a tutele crescenti. A parere di chi scrive sarebbe stato meglio sostituire il nuovo contratto a quello a tempo determinato e lasciare, per chi lo avesse desiderato, quello vecchio a tempo indeterminato.

In attesa di esaminare gli esiti di questa trasformazione ci permettiamo di far notare che in Italia restano varie altre grandi anomalie (frutto di storici dualismi) sulle quali sarebbe necessario intervenire. La prima è quella Nord-Sud. Il tasso di occupazione della popolazione in età lavorativa nel 2013 era del 64% circa al Nord, poco meno al Centro e del 42% al Sud (dati Istat 2014). Tra i giovani laureati il tasso di occupazione raggiunge l’82% al Nord, poco meno al Centro, mentre si riduce al 57% nel Mezzogiorno, dove i diplomati che lavorano non arrivano al 40% (contro il 71% del Nord).

La stessa analisi si può fare per le donne. Questa voragine non si colmerà con l’ennesima riforma del mercato del lavoro. Servirebbero politiche industriali (ma non se ne vede più l'ombra da molti anni) e un grande piano sulla legalità e la sicurezza dei territori. In mancanza di queste politiche, il Sud rimane un gigantesco peso che blocca lo sviluppo di tutto il paese. Non solo. C’è anche un terzo dualismo, quello delle dimensioni delle imprese. Solo Grecia e Portogallo hanno una percentuale di persone che lavorano in imprese con meno di 10 dipendenti superiore al nostro.

Per molti anni abbiamo decantato le virtù della piccola impresa, ma oggi sappiamo che, con l’eccezione di alcuni distretti industriali dove l'integrazione orizzontale compensa la minor dimensione delle aziende, questo tessuto è debole in termini di innovazione di processo e di prodotto. E infatti negli ultimi anni molte piccole imprese hanno cercato di stare sul mercato risparmiando sulla manodopera e così rinunciando a incrementi di produttività.

Nel mondo della piccola impresa la flessibilità interna (e in minor misura esterna) del rapporto di lavoro si pratica intensamente da decenni e non ha sopperito alla carenza di innovazione. Gli incentivi alle assunzioni daranno una boccata d’ossigeno, ma, essendo distribuiti a pioggia, non c’è da aspettarsi che producano un cambiamento di rotta positivo.

E veniamo al quarto dualismo, quello tra lavoro regolare e lavoro irregolare. Il lavoro irregolare è la somma di quello nero e di quello parzialmente registrato. Secondo le stime dell'Istat nel 2009 il 13,3% del lavoro dipendente era irregolare, un terzo in più che nel 1980. Il picco massimo (16%) si è raggiunto nel 2001.

Poiché i contratti atipici, a tempo parziale, interinali e così via, sono stati introdotti negli anni novanta ci saremmo aspettati un calo della quota di irregolari, visto che si offrivano al mercato tanti strumenti di regolarizzazione. Invece non si è ottenuto neanche quel risultato. Anzi, la deindustrializzazione e la crescita dei servizi a bassa qualificazione tendono a peggiorare la situazione.

Un quinto dualismo è tra lavoro pubblico e lavoro privato. La legislazione ormai riserva una condizione giuridica protetta solo ad alcune categorie di lavoratori pubblici (forze armate, poliziotti, magistrati ecc.), mentre gli altri lavoratori sono contrattualizzati e licenziabili come quelli privati. Per fortuna la pubblica amministrazione è un datore di lavoro meno spietato dell’imprenditore privato. Ma qui il vero dualismo è nella pianta organica: nessuna azienda privata potrebbe stare sul mercato con reparti sottodimensionati e altri sovradimensionati. Invece, nelle amministrazioni pubbliche è quello che succede.

Sul protrarsi di questa situazione, una grave colpa l’hanno avuta i tagli lineari e i blocchi del turnover, che hanno colpito nella stessa misura servizi che già avevano l’acqua alla gola e quelli dove si sarebbe potuto invece incidere molto di più. Chi lavora al pubblico e deve rispondere giorno per giorno ai cittadini non si può nascondere, mentre altri vivono più nascosti. Anche in questo caso, non è con un’ennesima riforma delle regole del lavoro che si possono ottenere risultati.

C’è infine il dualismo forse più drammatico, quello tra vecchi e giovani. La rivoluzione industriale, l’urbanizzazione e lo sviluppo tecnico-scientifico del diciannovesimo secolo hanno portato l’idea di progresso. Ogni generazione ha immaginato che i figli sarebbero stati meglio dei padri, e questo anche in tempo di guerra, mentre oggi i giovani che hanno 20 o 30 anni pensano che staranno peggio dei loro genitori. Le tutele del lavoro dagli anni novanta non fanno che ridursi, il welfare si restringe, le future pensioni saranno sicuramente molto meno generose di quelle attuali.

Questa tendenza ha molte cause: quando il numero degli anziani, grandi consumatori di welfare, sopravanza quello dei giovani, che ne sono in prevalenza finanziatori, un effetto di restrizione è inevitabile. Cinquant'anni fa c’erano 4 lavoratori per un un pensionato, ora siamo vicni all’1 a 1. Il fatto è che la crescita economica impetuosa è tipica di paesi in via di sviluppo, mentre noi per crescita della produttività siamo il fanalino di coda di quelli già ricchi.

Ma c’è un dato che riguarda tutti i paesi a capitalismo maturo: il riallargarsi della forbice delle diseguaglianze. A questo proposito, il recente contributo di Thomas Piketty ha fatto molto discutere. Io aggiungo solo una banale osservazione: dalla metà degli anni settanta, mentre il reddito complessivo degli Usa continuava a crescere vigorosamente, il reddito reale medio di una famiglia della classe media (negli Stati Uniti anche una coppia di operai qualificati è classe media) è cresciuto molto debolmente e nel nuovo secolo non è cresciuto affatto.

Assistiamo perciò a un allargamento del dualismo tra reddito da lavoro (qualsiasi lavoro) da un lato e rendita e profitto del capitale dall’altro. In pratica, cresce lo sfruttamento. Così non è più valido l’assunto kennediano secondo il quale quando la marea (la produttività) cresce tutte le barche si alzano. In Italia la produttività non cresce, perciò non si può dire che una classe si appropri della crescita più di un’altra. Una magra consolazione.

*Docente di Scienza dell’amministrazione all’Università di Urbino