Tra le ragioni che adduce chi vuole “superare” l’articolo 18, c’è più o meno sempre il fatto che, essendo applicato solo nelle aziende con più di 15 dipendenti, non è un diritto universalmente esigibile: se già c’è chi deve farne a meno, se ne può fare a meno. Al di là dell’indubbia (e insopportabile) strumentalità dell’argomentazione, è vero che su questo terreno, ma ancora di più su quello di molte altre tutele, il nostro mercato del lavoro è pieno di disparità, di “buche”, di doppi (o magari tripli) binari. Che magari avevano una logica quando sono iniziati (anche solo quella dei rapporti di forza), ma che nel tempo hanno dato vita a situazioni inaccettabili e ingestibili. Ed è per porre rimedio a questo stato di cose che da tempo in Cgil si è scelto di riportare nei contratti chi ne era nei fatti escluso, di seguire cioè la strada della contrattazione inclusiva, anche se di questi tempi non è facile includere persone, aggiungere diritti, conquistare tutele e la contrattazione troppo spesso è necessariamente in difesa. E diritti e tutele, invece che accrescersi, diminuiscono. Ma basta la contrattazione per fare tutto questo se la politica è disattenta, o peggio, se alla prova dei fatti rema in altra direzione, come sta facendo il governo con il Jobs Act? Lo chiediamo a Franco Martini, segretario confederale della Cgil.

Martini
La storia insegna che il rapporto tra politica e azione sindacale, in particolare per quanto attiene alla politica dell’occupazione e delle tutele sociali, è sempre stato stretto, in certi casi addirittura propedeutico all’evoluzione delle norme. Se questo valeva in una situazione di “normalità” nella vita del paese, ancor più vale nella drammatica crisi che stiamo vivendo. Includere gli esclusi in una fase del ciclo economico e produttivo che sta espellendo quelli che già erano inclusi, rende decisamente più difficile il compito, direi improbabile, senza politiche finalizzate al rilancio della crescita e dell’occupazione. L’assenza di un dibattito e di un impegno credibile del governo in questa direzione – come testimonia del resto la mancanza di risposte nell’incontro a Palazzo Chigi del 7 ottobre – non potrà che portare all’ennesimo fallimento delle politiche costruite essenzialmente sulla flessibilità in uscita del mercato del lavoro. Si tratta di un film già visto, che ha prodotto solo ulteriore precarietà ed esclusione. Chi si occupa un po’ di lavoro, di produzione, sa che non esiste alcun nesso tra la residua tutela contro i licenziamenti “falsamente” economici e il dramma del 44 per cento della disoccupazione giovanile. La politica deve indicare quale paese intende costruire, dentro quale ipotesi di sviluppo favorire l’inclusione degli esclusi: se uno sviluppo fondato sulla valorizzazione delle competenze, della ricerca e dell’innovazione o rimanere al palo della bassa qualità, causa prima dell’emarginazione sul lavoro.

Rassegna La contrattazione è un altro dei punti di attacco di Renzi al sindacato. Tra i tre temi su cui vi sfida c’è infatti quello della contrattazione aziendale. Ma anche qui l’idea non sembra quella di lavorare per una nuova capacità acquisitiva, quanto per deroghe su deroghe in peggio al contratto nazionale, che verrebbe così svuotato nei fatti…

Martini
Anche in questo caso si parla a sproposito (o sotto dettatura), dimostrando di non conoscere il mondo del lavoro. Il secondo livello di contrattazione, a partire da quello aziendale, deve indubbiamente svilupparsi. Ma far finta di non sapere che solo in una piccola parte del mondo del lavoro questa pratica è diffusa, per tante ragioni, a partire dalla piccola dimensione dell’impresa, significa riproporre l’idea di un mercato duale, con una parte minoritaria che potrà ambire a ridistribuire i benefici della produttività e la stragrande maggioranza del mondo del lavoro destinata a condizioni salariali marginali, per non parlare delle condizioni di lavoro. È stupefacente osservare che chi propone questo inevitabile scenario è chi, al tempo stesso, si fa paladino del superamento di un mondo del lavoro composto da lavoratori di serie A e lavoratori di serie B…

Rassegna Tornando alle altre tutele, di cui i troppi precari italiani non godono (maternità, malattia, equo compenso), a quale livello ritieni occorra muoversi? nazionale, aziendale, un mix tra i due? E con quale gradualità?

Martini Ci sono delle tutele che devono diventare assolutamente universali, come, appunto, la maternità e la malattia. Mettere al mondo un figlio non può presupporre condizioni differenziate tra luogo di lavoro e luogo di lavoro. Questi diritti vanno assunti dentro un quadro normativo generale che non faccia distinzioni. Dentro un sistema universale di tutele occorre poi apprezzare il contributo che può venire dal welfare contrattuale, come nel caso della sanità integrativa. Credo, però, sia giunto il momento di fare una riflessione su questa esperienza, per governarla dentro un progetto omogeneo dell’intero movimento sindacale, pena il rischio che il sistema pubblico delle tutele universali venga gradualmente sostituito da una realtà a macchia di leopardo, dove, anche in questo caso, si allargherebbero le distanze fra i settori in grado di esercitare un’efficace contrattazione redistributiva e chi questa non ha questa condizione.

Rassegna
Vieni da un’esperienza, quella della Filcams, dove precarietà e disuguaglianze sono una sfida continua per un sindacato che non abbia paura di sporcarsi le mani per cambiare una realtà che non va. Quale insegnamento porti con te da questi anni?

Martini Intanto, viene da sorridere alla domanda di Renzi “voi dove eravate?”. Perché, se è vero che il sindacato ha colto con ritardi culturali e contrattuali il crescente fenomeno del mercato del lavoro duale, restando per troppi anni prevalentemente ancorato alla tradizione, è anche vero che da diverse stagioni sindacali questo ritardo si è cercato di recuperare, mentre la politica andava in direzione contraria. La Filcams, indubbiamente, di questi laboratori ha rappresentato quello più vicino alle caratteristiche del mondo precario e duale a cui si fa riferimento nella polemica di questi giorni. Ma vorrei ricordare che in altri settori, come le costruzioni, l’agroindustria, le telecomunicazioni, le imprese sociali di servizi, la frontiera del precariato da anni è terreno di sperimentazioni. L’esperienza della Filcams conferma che la sfida è innanzitutto culturale e presuppone la volontà del sindacato di guardare veramente oltre i paradigmi della tradizione, che si tratti dei contenuti rivendicativi, oppure delle forme e modalità dell’agire sindacale. È un mondo del lavoro all’interno del quale c’è tutto e il contrario di tutto. Fare sintesi in questo caso è molto difficile, come è altrettanto difficile individuare i tratti di un’identità del lavoro terziario. La sensazione che si prova è quella di dover inventare spesso qualcosa che ancora non esiste: e non si tratta semplicemente di aggiungere qualcosa che non c’è, quanto di ridefinire i tratti della nostra confederalità, esattamente la sfida che ci siamo proposti con l’ultimo congresso.

Rassegna Uno dei terreni sul quale sono assai evidenti le disparità tra lavoratori e lavoratori – e ancora di più tra chi un lavoro ce l’ha e chi no – è quello degli ammortizzatori sociali. Il presidente del Consiglio ripete che lo Stato non lascerà nessuno indietro, ma poi dice anche di aver stanziato all’uopo cifre che sono inadeguate. C’è da essere preoccupati?

Martini Più che preoccupati, c’è da essere allarmati: non a caso si tratta di uno degli obiettivi della manifestazione del 25 ottobre. Da un lato, si sostiene di voler promuovere tutti nella serie A dei diritti e delle tutele e, dall’altro, si riducono le risorse per la stessa serie A, con la prospettiva di veder ingrossare le già nutrite fila di chi vive sotto la soglia dell’autosufficienza economica. E qui si torna al punto di partenza. Pensare di fare una riforma del mercato del lavoro che allarghi le tutele agli esclusi, dunque costosa, in piena recessione, necessita di fare un discorso chiaro e realistico sul reperimento delle risorse. Abbiamo due giacimenti di fronte a noi, uno noto e un secondo da scoprire. Quello noto parla delle ricchezze accumulate anche negli anni di crisi, i grandi patrimoni, quelle sottratte al fisco con l’evasione e quelle prodotte dall’illegalità economica. In questa direzione il segno deve essere deciso, altro che 80 euro per pochi… Quello meno noto parla della crescita economica che va rilanciata, parla di uno sviluppo nuovo del paese che sia in grado di tornare a produrre ricchezza. Ma di questo non c’è traccia alcuna nel dibattito di questi giorni, tant’è che gli stessi decimali di flessibilità che andiamo mendicando in Europa, in cambio dell’articolo 18, non si sa a quale fine saranno destinati. Sbloccare l’Italia al momento è solo uno slogan e, anche a questo riguardo, il 25 ottobre vorremo dire al governo che la stagione degli spot è finita.