Ragionare su un arco temporale relativamente ampio – un quadriennio – consente di cogliere tendenze non contingenti negli assetti delle nostre relazioni industriali (nell’ambito delle quali inseriamo i rapporti tra le parti, la struttura contrattuale e la stessa rappresentanza dei soggetti sociali). Con maggiore nettezza si può registrare la percezione della fine di un ciclo e l’apertura di un altro ciclo, i cui contorni e le cui implicazioni sono almeno in parte da completare. Quella che è tramontata definitivamente in tutti i paesi socialmente avanzati e con sindacati forti – e quindi in larga misura anche da noi – è l’illusione di potersi proteggere indefinitamente dall’attivissima talpa della globalizzazione, che erode gli strumenti d’azione tradizionali e riduce le tutele classiche del lavoro. È un’illusione tramontata davanti agli effetti della crisi economicofinanziaria, che invece di rimettere al centro il lavoro, come sarebbe stato auspicabile, ha confermato il suo indebolimento nei numeri associativi, il peggioramento nei rapporti di forza accanto alla marginalità decisionale delle sue rappresentanze.

Dunque, organizzazioni sindacali generalmente dimagrite (meno in Italia), con un minor peso nella sfera politico-istituzionale e con un restringimento anche degli spazi della contrattazione, soprattutto di quella nazionale. Tanti studiosi e osservatori tradizionalmente ottimisti hanno dovuto prendere atto che, nonostante la presenza di forti istituzioni protettive in tanti paesi, pure il rischio di un ridimensionamento dei sindacati e delle relazioni industriali (o di un loro snaturamento) si è significativamente accresciuto.

Nel caso italiano questo scenario si è accompagnato a ulteriori specificazioni e complicazioni, non prive anche di qualche elemento positivo. In effetti, da un lato i risultati associativi delle nostre organizzazioni, nel loro insieme, restano solidi e di tutto rispetto, facendo segnare anche – in assoluta controtendenza – delle variazioni positive. E, da un altro lato, il carattere largamente informale e volontarista (salvo che nel pubblico impiego) ha contribuito a mostrare la fragilità del nostro sistema di regole, accresciuta dagli episodi di divisione tra le confederazioni, culminati nell’accordo separato del 2009 in materia di struttura contrattuale. L’approfondirsi della crisi economica, la crescita della disoccupazione e della vulnerabilità sociale hanno scavato un solco rispetto alla fase precedente, e reso più evidente la necessità di un’inversione di tendenza. In particolare, la scossa più forte e la perdita di peso più evidente è avvenuta nelle due arene nelle quali i sindacati erano meglio insediati.

Quella politica, nella quale tanto avevano contato negli anni novanta, e dove la crisi ha invece agevolato decisioni unilaterali dei governi, ispirate a una logica di tagli della spesa e delle politiche sociali (in Italia come altrove). Quella contrattuale, che ha visto una riduzione della sovranità del ccnl, ma anche un ridimensionamento dei suoi confini (a partire dal blocco ormai decennale dei contratti pubblici). La minore capacità regolativa dei contratti nazionali non è stata compensata dalla crescita, nell’importanza e nell’estensione, della contrattazione decentrata: questa è stata segnata in prevalenza da accordi legati all’emergenza economica (con un ruolo decisivo dei sindacati), anche se non sono mancati casi aziendali di novità nei contenuti e di successo nei risultati. Un quadro dunque di potenziale erosione degli strumenti principali di difesa e di promozione del mondo del lavoro. Ma anche un quadro di ridimensionamento tendenziale di tutti gli attori collettivi, inclusi quelli datoriali. Di qui è partito da parte dei principali attori nell’ultimo quadriennio un tentativo di rimessa a punto dei fondamentali del nostro assetto di relazioni industriali. La direzione di marcia seguita – e punteggiata da numerosi accordi interconfederali – è consistita in un rilancio del ruolo dell’autonomia collettiva all’interno di un processo di istituzionalizzazione leggera, che auspicabilmente potrebbe condurre a impatti legislativi.

Queste intese hanno coperto vuoti rilevanti e gettato le condizioni per un recupero di capacità regolativa, grazie anche alla convergenza di interessi con l’attuale corso di Confindustria, ugualmente preoccupato di rilanciare la crescita economica, ma nello stesso tempo attento a sfruttare i potenziali di cooperazione tra le parti sociali. In questo modo, sono state sottoscritte intese che hanno coperto una fitta rete di temi: dai margini per i cambiamenti organizzativi assegnati alla contrattazione aziendale, ai criteri per la misurazione della rappresentatività, ai lineamenti generali per rilanciare lo sviluppo e la produttività. Abbiamo assistito, soprattutto nel corso dell’ultimo anno, a un attivismo delle parti sociali motivate ad ampliare e rielaborare i loro spazi di intervento, anche per colmare il deficit di legittimità sociale e di capacità decisionale che investe la sfera politica.

Un segnale comunque importante perché indica la reattività, e la voglia di misurarsi in positivo con “beni comuni”, da parte di quelle grandi organizzazioni che il nuovo corso politico – non solo italiano, ma in particolar modo italiano – considera come un impaccio, invece che come una risorsa importante. Questo attivismo ha trovato il suo principale punto di caduta negli accordi in materia di rappresentanza, culminati nel Testo unico, un ambizioso documento sistematico, dello scorso gennaio. Su questo iter – al di là della sua macchinosità – va data sicuramente una valutazione positiva. Non solo sono stati introdotti criteri chiari e trasparenti per misurare la rappresentatività e sanare uno dei nodi strategicamente irrisolti del nostro sistema. Ma questo passaggio è stato curato con un’attenzione a definire procedure di coinvolgimento nelle decisioni dell’insieme dei lavoratori interessati: un potente incentivo alla democrazia sindacale e, nello stesso tempo, una risposta forte al disfattismo dei tanti populismi che si dichiarano gli unici depositari – senza verifiche democratiche – della volontà dei cittadini.

Non sono mancate le critiche a questo testo, e certo si intravedono anche alcuni problemi aperti – in particolare nella gestione delle trattative contrattuali – legati alla sua implementazione, e che hanno fatto parlare da parte di qualche studioso del rischio di una “dittatura della maggioranza”. Critiche e problemi che possono essere ritradotti in un’attenzione vigile nel coltivare praticamente codici di comportamento che mettano tutti i sindacati rappresentativi in condizione di avere uguali diritti di partecipare ai tavoli negoziali esercitando per intero le loro funzioni. Si è verificato così un approdo importante: un grande nodo non affrontato oggi è emerso finalmente ed è (almeno in potenza) ben regolato. D’altra parte, non sono mancate su altri terreni delle suggestioni che indicano anche possibili cambi di paradigma.

Così è avvenuto in materia di struttura della negoziazione attraverso la proposta Cgil (ma anche le altre confederazioni mostrano sensibilità analoghe) di una contrattazione più “inclusiva”: che va nella duplice direzione di estendere la copertura dei diritti e delle tutele ai lavoratori non standard e meno protetti, ma anche di allargare la “portata” contrattuale in modo da rafforzare le capacità della contrattazione in azienda di governare più incisivamente tanto l’organizzazione del lavoro che le condizioni lavorative. O anche con il progetto di un Piano del lavoro, che ha avuto il merito di rimettere al centro dell’attenzione, accanto al contributo delle forze sociali, l’esigenza di responsabilizzare gli attori politici, e la funzione cruciale di un neo-interventismo pubblico, fondamentali se si vogliono davvero invertire strutturalmente le dinamiche occupazionali attuali.

Come si vede, queste due proposte e ipotesi di lavoro toccano proprio i due nervi scoperti da cui eravamo partiti: una ripresa di slancio dell’azione “verso” e “nella” sfera pubblica e, insieme, un aggiornamento necessario della strumentazione contrattuale, se si intende ricostruirne la sovranità su salari e condizioni di lavoro. Ciononostante, la marcia sindacale, avviata negli ultimi anni, appare alle prese con un cammino ancora lungo (anche se sperabilmente fruttuoso). Detto con un altro linguaggio, i cambiamenti e i risultati stentano ancora a maturare, anche se ne sono state gettate le basi.

Quali sono le ragioni di queste difficoltà, che peraltro – come accennato – attraversano tutti i movimenti sindacali occidentali? La prima riguarda il fatto che quello descritto non è un processo di avanzamento lineare. Esistono controspinte e tentativi di favorire una deregolazione dello spazio classico delle relazioni industriali. Questa tendenza, in Italia si è manifestata attraverso la configurazione legislativa – il famoso articolo 8 – di un potere enorme e sregolato messo nelle mani degli accordi aziendali. Dunque, bisogna misurarsi anche con queste resistenze e questi orientamenti a “disorganizzare” l’assetto contrattuale, per quanto essi non appaiono maggioritari neppure tra gli imprenditori.

La seconda ragione investe invece la mancanza di una reale interlocuzione politica. Anche qui bisogna fare i conti con un mutamento ormai avvenuto di clima e di contesto. Sembra tramontata – almeno per ora – l’era dei governi amici. Le prese di posizione recenti dell’attuale premier lasciano chiaramente intendere che anche i governi di centro-sinistra, almeno nell’attuale configurazione, si accingono a fare a meno del supporto, in termini di supporto e di coinvolgimento decisionale, non solo dei sindacati, ma dell’insieme degli attori sociali.

C’è da sperare che questa dimensione-chiave possa tornare a giocare però un ruolo diverso, perché c’è bisogno adesso, come nel passato fordista, di una politica orientata a promuovere i diritti collettivi. Una terza questione aperta è che il percorso descritto appare ancora come incompiuto, sia perché alcune voci non sono state ancora abbozzate (la democrazia industriale), sia perché è finora mancata una messa in opera di alcune di esse, sia perché in alcuni casi – come quello della rappresentanza – sarebbe opportuno un passaggio ulteriore verso l’istituzionalizzazione legislativa. Infine, ma non da ultimo, va sottolineata l’esigenza di rafforzare gli esiti operativi di questa rete di accordi tra le parti.

L’istanza di maggiore rapidità nelle decisioni e nella loro attuazione appare fondata. Gli stessi accordi, succintamente ricordati, in materia di rappresentanza hanno avuto una lunga gestazione, durata tre anni, e attendono ancora una piena attuazione. Le grandi organizzazioni possono rispondere alle sfide dei tanti nemici esterni, che ne vorrebbero ridurre il ruolo, non se restringono la loro base sociale (come vorrebbero quei nemici), ma se si mostrano capaci di tenere unite l’ampiezza dei processi democratici con la snellezza di decisioni efficaci.

*Ordinario di Sociologia del lavoro presso l’Università di Teramo