Welfare, stop al turismo assistenziale (Euractiv), La Corte europea condanna il turismo del welfare (Euronews), Stop al turismo del welfare (Il Sole 24 Ore), La Corte Ue contro il turismo del welfare (La Stampa), la Corte europea aiuta la causa di Cameron (The Times), La giustizia europea dà un colpo al turismo sociale (le Figaro), La Corte Ue dice basta al turismo dei sussidi (La Padania)... Un diluvio, insomma.

Con rare eccezioni, ad esempio quella di Le Monde, così la maggior parte dei media – specialisti e generalisti – hanno dato la notizia di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea di pochi giorni fa. In pratica, autorizzando il rifiuto di prestazioni sociali a una cittadina romena residente in Germania, la Corte europea avrebbe decretato uno “stop al turismo sociale”. È un falso. Ossia, il pronunciamento c’è stato, certamente, ma la realtà è ben diversa. La Corte europea ha semplicemente ribadito un fatto già noto, ossia che gli Stati membri dell’Ue non sono tenuti a concedere prestazioni sociali ai cittadini europei che vi si sono stabiliti unicamente allo scopo di beneficiare delle prestazioni sociali. Lo sapevamo già. Questa sentenza, insomma, non cambia nulla.

Il risultato però di questa tempesta mediatica, involontariamente alimentata anche dai blog di molte associazioni progressiste, è stato di mettere il vento in poppa alla demagogia nazionalista, xenofoba e antieuropea dei partiti conservatori e di estrema destra di mezza Europa, ad esempio nel Regno Unito, in Italia, in Germania, in Belgio e in Olanda. Resta il dubbio che pochi abbiano letto il dispositivo della sentenza. Vediamo infatti su cosa e come si è pronunciata la Corte di giustizia Ue. La sentenza, dell’11 novembre 2014, nasce da una controversia tra due cittadini romeni, la signora D. e suo figlio di cinque anni, e il Jobcenter Leipzig, che aveva negato loro le prestazioni dell’assicurazione di base (Grundsicherung), riservate a chi è in cerca di occupazione: più precisamente, per la signora Dano la prestazione di sussistenza (Existenzsichernde Regelleistung) e, per suo figlio, l’assegno sociale (Sozialgeld) e la partecipazione alle spese di alloggio e riscaldamento.

La signora D. non si è recata in Germania per cercarvi un impiego e risulta dagli atti di causa che non cerca lavoro. Non possiede una qualifica professionale e non ha esercitato attività lavorative né in Germania né in Romania. Vive in Germania insieme al figlio dal novembre 2010 e abita presso la sorella, che provvede al loro sostentamento. Percepisce prestazioni per figli a carico per un importo pari a 184 euro mensili, nonché un anticipo sulla pensione alimentare per un importo pari a 133 euro mensili, prestazioni queste che non sono oggetto del procedimento.

In pratica, la Corte non ha fatto altro che confermare una serie di dispositivi già noti, posti in essere dieci anni or sono dalla direttiva europea 2004/38, relativa al diritto dei cittadini dell’Ue e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Ue. Ad esempio, lo Stato membro ospitante non è tenuto a erogare una prestazione sociale durante i primi tre mesi di soggiorno. E quando la durata del soggiorno è superiore a tre mesi ma inferiore a cinque anni, come nel caso in questione, il diritto di soggiorno è subordinato alla condizione che le persone economicamente inattive dispongano di risorse proprie sufficienti. Il legislatore ha inteso in tal modo impedire che cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento. Nel caso in questione la Corte ha sancito che la signora D. e suo figlio non dispongono di risorse sufficienti al proprio mantenimento e non possono pertanto rivendicare il diritto di soggiorno in Germania previsto dalla direttiva 2004/38.

Certo, si poteva sperare in una sentenza di apertura, che abbattesse le frontiere dei sistemi nazionali di welfare. Questo, per assurdo, sarebbe stato davvero rivoluzionario e avrebbe meritato di fare il giro del mondo come “notizia”! Ma è compito dei giudici della Corte europea riscrivere i Trattati? Leggendo la sentenza dell'11 novembre possiamo vedere che il suo dispositivo non si rivolge a coloro che hanno il diritto di soggiorno in quanto economicamente attivi, ma esclusivamente a quei cittadini che si recano in un altro Stato membro con l’unico fine di beneficiare di un aiuto sociale. Per questi ultimi si conferma il requisito del possesso di risorse economiche sufficienti, affinché non divengano un onere per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante. Tutto qui. Può non piacere, certamente. Ma è un requisito, come dicevamo, introdotto nel 2004 da una direttiva che – attenzione – ha ampliato e non ristretto il diritto alla libera circolazione estendendolo (con il requisito delle “risorse sufficienti”) anche alle persone non attive. Diritto fino ad allora altrimenti riservato al lavoratore, in tutte le sue accezioni: salariato, indipendente, alla ricerca di lavoro, pensionato.

La sentenza del’11 novembre conferma anche che il requisito delle “risorse sufficienti” può essere preso in conto dallo Stato membro ospitante, a prescindere da eventuali prestazioni sociali che questo stesso Stato potrebbe fornire. La giurisprudenza precedente (ad esempio Brey, del 2012) andava già in questa direzione. Nulla è cambiato, quindi. Anzi, la sentenza conferma importanti elementi di tutela individuale: ad esempio, che gli Stati membri devono tener conto della situazione personale dell’interessato, e in particolar modo della durata del suo soggiorno nel paese ospitante, della sua età, del suo stato di salute, della sua situazione familiare ed economica, della sua integrazione sociale e culturale nel paese ospite, nonché dell’intensità dei suoi legami con il paese d’origine.

L’esame condotto dai giudici sulla situazione personale della signora D. e di suo figlio, mostra anche che la giustizia europea non offre alibi alle pratiche discriminatorie messe in atto da alcuni Stati membri, tese invece a escludere i cittadini stranieri dalle prestazioni sociali e dal diritto di soggiorno attraverso meccanismi “automatici” di espulsione, che non tengono in alcun conto la situazione concreta e personale dei diretti interessati. Pensiamo in questo caso soprattutto al Belgio, che negli ultimi 5 anni ha espulso circa 10.000 cittadini comunitari, grazie in gran parte a un meccanismo sistematico e automatico di trasmissione di dati personali, messo in piedi dalle autorità federali al solo scopo di permettere di identificare i cittadini provenienti da altri Stati membri dell’Ue, e decidere così di mettere fine al loro permesso di soggiorno (vedere ad esempio: Délibération du Comité sectoriel de la sécurité sociale et de la santé n° 13/051, del 7/5/2013).

Sistemi di questo tipo sono contrari all’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva europea 2004/38, che proibisce espressamente ogni verifica sistematica del diritto di soggiorno dei cittadini europei. Per frenare queste pratiche illegali, il 5 novembre scorso il patronato italiano Inca Cgil ha depositato una denuncia alla Commissione europea contro le autorità belghe. Oltre che dalla presidente dell’Inca Cgil Morena Piccinini, la denuncia contro il Belgio è stata sottoscritta da Jean-François Tamellini, segretario federale del sindacato belga Fgtb, dall’avvocato Anthony Valcke di Eu Rights Clinic, una rete europea di giuristi che si batte per i diritti di cittadinanza, e da Ariane Hassid presidente di Bruxelles Laïque, una delle più grandi e combattive associazioni per la difesa delle libertà civili in Belgio. Anche la Confederazione europea dei sindacati sostiene questa battaglia, e lo scorso 14 novembre ha chiesto che il problema delle espulsioni di cittadini europei sia messo all’ordine del giorno del Comitato consultivo per la libera circolazione dei lavoratori, al quale partecipano governi e parti sociali dei 28 Stati membri.

* Direttore dell'Osservatorio per le politiche sociali in Europa Inca Cgil Bruxelles

Per saperne di più:
Comunicato stampa della Corte di giustizia dell’Unione europea (in italiano)
Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa C-333/13 (in italiano) 
Denuncia dell’Inca Cgil contro le autorità belghe (in francese)