Pubblichiamo un estratto da “Una pietra sul passato”, reportage narrativo scritto da Carlo Ruggiero per Ediesse che sarà in libreria dal 7 novembre. Il libro racconta la storia di un piccolo borgo della provincia di Frosinone, Coreno Ausonio, e della sua icona miracolistica: le cave di marmo. La storia di una delle tante piccole Italie, segrete e inaccessibili, sconvolte una volta e per sempre da un modello di sviluppo folle, dal mito della crescita e dall’epica della ricchezza. Nel libro, anche un fotoreportage di Matteo Di Giovanni.

Qui bisognerebbe venirci almeno due volte. Una volta in un giorno lavorativo, un’altra di domenica. Certo, questo comporterebbe un soggiorno un po’ più lungo, ma il visitatore diligente avrebbe il dovere di farlo, se non vuole lasciarsi sfuggire l’opportunità, forse unica, di capire davvero cos’è stato il marmo per Coreno. E cosa si è lasciato alle spalle. Per orientarsi, però, bisogna ragionare i termini di pieno e di vuoto. Di presenza e di assenza. Questo posto dal lunedì al sabato è pieno. Qui si concentra la maggior parte delle cave e sembra di stare in un formicaio brulicante: è pieno di gente, pieno di rumori, pieno di movimento. Non si riesce a fissare gli occhi su qualcosa che subito l’attenzione viene catturata da qualcos’altro, e poi da qualcos’altro ancora. E anche l’olfatto rischia di dare i numeri: si sente profumo di benzina, odore di bruciato e puzza di gas di scarico. 

Di domenica, invece, cambia tutto. In giro non si vede più nessuno, il paesaggio appare vuoto e senza vita, l’intera vallata resta addormentata in un silenzio immobile dalla mattina alla sera. Non c’è puzza nell’aria, ma si respira un profondo senso di desolazione. Riflettendoci, però, anche durante la settimana a dominare è un’assenza. Un vuoto enorme, talmente grande da riuscire a nascondersi. Come sempre, tutto dipende dal punto di osservazione. Dal centro storico non si vede: lo sguardo oltrepassa gli scavi e si perde nel mare. E lo stesso vale anche per la strada che da Ausonia porta in paese. Si potrebbe anche attraversare Coreno senza rendersi conto di niente. E neanche da qui, dove ci troviamo ora, possiamo vedere quel vuoto, perché siamo esattamente nel cuore di quello che manca: siamo al centro di una collina che non c’è.

Solo da lontano si può capire appieno cos’hanno prodotto da queste parti quarant’anni di estrazione del marmo. Percorrendo la superstrada che attraversa la valle, infatti, il vuoto si manifesta in tutta la sua brutalità: il costone della montagna è tutto bucherellato, come una mela morsa in più punti da una bocca gigante. Al verde opaco delle querce, degli ulivi e dei poveri pascoli che si trovano sulla scorza risponde il bianco della pietra: la polpa portata alla luce del sole.

Ma, già che ci siamo, è forse il caso di allontanarsi ancora un po’. È facile in paese trovare delle foto aeree della zona. In realtà, si tratta sempre della stessa immagine, di cui i cavatori vanno piuttosto fieri. Basta chiedere in giro, e te la sventoleranno subito sotto al naso. Coreno, in quella foto, appare piccolo piccolo, solo una manciata di quadratini rossi tutti appiccicati alla montagna. I quadratini diminuiscono sempre di più man mano che ci si sposta verso Castelforte, lungo una nervatura della montagna. Poi c’è ancora qualche centimetro di verde intenso e all’improvviso decine di enormi chiazze chiare, ognuna delle quali è grande dieci volte il paese: le cave.

A qualsiasi forestiero, guardando quelle macchie candide, viene da chiedersi com’è stato possibile a degli esseri tanto piccoli da abitare in quei quadratini scavare buche così grandi. La risposta è che ci sono riusciti. Ci sono volute un paio di generazioni e un po’ di tritolo, ma alla fine ci sono riusciti. Questa zona dista solo un paio di chilometri dal centro, e paradossalmente si chiama “Contrada Poera” (Contrada Povera). Il nome, con ogni evidenza, le è stato assegnato prima dell’avvento del marmo. La strada che ci arriva è ricoperta di ghiaia e tutta sconnessa. Prima sale un poco, poi incomincia a scendere. D’estate qui la luce è abbacinante e l’aria tremola sulle pietre infiammate dal sole. Più si scende e più le pareti di roccia delle cave crescono davanti agli occhi. Enormi spianate biancastre mozzano di netto la cima di ogni altura. Alcune sono di un candore smagliante, altre più sporche e giallognole. Intorno, soprattutto durante i periodi di siccità, le querce sono ricoperte da un sottile velo di polvere grigia che le rende spettrali. Un fitto reticolo di stradine unisce una cava all’altra.

Dal lunedì al sabato, questa ragnatela di pietrisco è attraversata da decine di camion, scavatori e pale meccaniche. Il rombo dei motori si confonde con il fracasso cadenzato dei martelli pneumatici imbracciati dagli operai, e riecheggia ininterrotto e assordante per l’intera vallata. È il rumore del progresso, è l’industria del marmo che gira a pieno ritmo. Di domenica, invece, tutto si ferma. I camion non ci sono, e i mezzi meccanici se ne stanno abbandonati in questi enormi piazzali polverosi. Intorno si alzano i fronti delle cave, costoni di pietra alti circa venti metri, mutilati in enormi gradoni, irregolari e spigolosi. Sembra di stare nel bel mezzo di una natura morta cubista. Ma sulla tavolozza del pittore dovevano esser rimasti solo il bianco e il nero, perché tutto è coperto da un’interminabile gradazione di grigi. Sulla cima resiste ancora qualche chiazza verde-giallastra, ma per il resto, di domenica, non c’è altra traccia di vita.

Quando ormai ci si sente definitivamente abbandonati a se stessi, però, ci si trova davanti a un grosso cane da guardia un po’ malmesso, incatenato e ringhioso, che abbaia a squarciagola. Il cane è legato a un palo che sta in uno spiazzo tra un capannone di lamiera e una baracca prefabbricata, anche quella tutta inzaccherata di polvere bianca. Avvicinandosi un poco alla baracca, si sentiranno rumori di stoviglie e il cicaleccio di un televisore. Qualche cavatore un po’ in là con gli anni, ha trasformato il cantiere in una dependance. E lì dentro ci passa anche le feste. Se si è fortunati, lo si incontra mentre passeggia tra i suoi possedimenti perso in una vecchia tuta da ginnastica. Dopo aver squadrato il nuovo arrivato dalla testa ai piedi e aver esaminato le sue generalità, è molto probabile che si fermi pure a chiacchierare. Ed è sicuro che quello che uscirà dalla sua bocca sarà un unico, interminabile lamento: “Le cose vanno male”, “non è più come prima”, “i figli non hanno più voglia di lavorare, non sanno fare sacrifici”. E ancora: “non si vende più niente”, “le tasse ci stanno ammazzando”, “la Guardia di Finanza ha deciso di farci chiudere” e così via.

A questo punto bisogna essere bravi a smarcarsi. È il caso di svignarsela in fretta, oppure porre domande mirate. Perché quello potrebbe anche andare avanti per ore. Prima, però, è meglio dare un’altra occhiata in giro. E immaginarsi come doveva essere qui cinquant’anni fa. La risposta è semplice: innanzitutto era pieno. Oggi è difficile da credere, ma questo strano susseguirsi di gradoni e spianate bianche è stato un tempo una collina come tutte le altre. Adesso sembra un affresco lasciato a metà, ma era una montagnola tondeggiante – dicono – quasi morbida. Sulla cima c’erano alberi ed erba, l’erba gialla e stopposa tipica di queste zone. Adesso, invece, lassù c’è appollaiato un enorme carroponte verde. Si vede pure dalla statale, e sembra un ragno meccanico circondato dalle gru degli scavi più periferici. Le pietre c’erano pure allora, certo, ma non erano ammucchiate in ogni angolo (...). E poi non c’erano questi blocchi di pietra squadrata, messi in fila, uno sopra l’altro, segnati con scritte di vernice spray. “Materiale scadente o rovinato – spiega scoraggiato il cavatore – roba che non si venderà mai”.

Viene da chiedersi in che modo hanno svuotato questa collina. Il nostro accompagnatore non lo ammetterà, perché un po’ se ne vergogna, ma lo sanno tutti che all’inizio hanno usato anche il tritolo. Quando sentivano quei boati e vedevano la montagna che si apriva come un cocomero maturo, a molti venivano in mente i tempi della guerra. Va da sé che parecchio materiale buono andava distrutto, ma a quei tempi c’era di che scialare. E poi era il solo modo per raggiungere velocemente il filone buono. Bisognava fare i soldi alla svelta per rientrare delle spese, così si è andati avanti con l’esplosivo per un bel po’, sventrando la montagna, candelotto dopo candelotto, botto dopo botto. Dopo qualche anno le tecniche di estrazione si sono fatte un po’ più raffinate. Anche perché, a forza di demolire indiscriminatamente, il marmo ha cominciato a scarseggiare.

Questo il cavatore lo rivela senza problemi, ostentando pure una certa competenza mentre spiega che, in termini tecnici, le cave sono coltivate a gradoni a mezza costa, e le tecnologie di coltivazione utilizzate sono la miccia detonante e il filo diamantato. Il metodo della miccia detonante è più antico, e più simile al tritolo. Si realizza una sequenza di fori ravvicinati lungo il fronte della cava. In quelle fessure vengono collocate minime quantità di esplosivo, tutte collegate ad un’unica miccia. Quando si dà fuoco alle ceneri, il boato è trascurabile, ma il taglio è molto preciso e dalla parete si staccano grossi blocchi di roccia. Lo spettacolo del taglio del fronte è davvero impressionante.

Sembra di stare in un film d’azione americano: l’esplosione risuona in tutto il bacino riverberandosi di cava in cava, mentre un’enorme nube di polvere si innalza dal fronte. Nel frattempo, una colossale parete di pietra bianca si separa dalla montagna rovinando a terra e facendo schizzare ovunque scaglie e pietrisco. Il silenzio che viene dopo è davvero assordante: i cavatori si avvicinano, senza fiatare, alle macerie per valutare con estrema attenzione il risultato del taglio. La tensione, in quei momenti, è palpabile: dalla qualità di quello che troveranno dipende il futuro della ditta. Il metodo del filo diamantato, invece, è più innovativo e meno spettacolare. Ma anche molto più costoso (...). Per questo lo usano in pochi. Ci vuole una macchina a motore con pignone e cremagliera che trascinano un cavo ricoperto di carbonio cristallizzato. È una specie di ciclopica affettatrice elettrica che asporta strisce di marmo dalla bancata, come se fosse salame. Il taglio, in questo caso è più preciso e il rischio di rovinare il materiale molto minore. Quale che sia il metodo di estrazione, in seguito la pietra viene squadrata in maniera piuttosto grossolana. Prima lo si faceva con i martelli pneumatici, ora con macchinari un po’ più evoluti.

Il prodotto di tutto questo lavoro sono questi cubi bianchi che riposano ovunque, in attesa di essere caricati sui camion. “Cioè mai”, ci tiene a sottolineare il nostro cavatore. Nel caso si sbagliasse, i blocchi verranno invece trasportati a valle nelle decine di “segherie” che sono sorte nei paesi del circondario. La prima lavorazione è la suddivisione in lastre, mentre in altri laboratori, ancora più sofisticati, le lastre verranno trattate ulteriormente, trasformandole in mattonelle, cordoli, paracarri, panchine, e così via. L’ultima domanda (...) è cosa succederà a questa collina una volta che il marmo sarà finito del tutto. Che ne sarà di questa montagna sventrata quando non ci sarà da tirare fuori neanche più un sassolino. C’è da scommettere che quello si stringerà nelle spalle, guardandosi intorno un po’ stordito, come se gli fossero state chieste informazioni sul sesso degli angeli. Il problema non se lo pone nemmeno, lui. Non se lo può porre, e c’è da capirlo. Questa gente ha vissuto su questa terra per millenni, sfruttandola fino all’osso, ma anche venerandone ogni singola manciata in maniera quasi religiosa.

Queste colline per quanto aride e desolate, sono state l’unica fonte di nutrimento per un’umanità spesso dimenticata dal resto del mondo. Poi le cose sono cambiate di colpo, e a sfamare il paese non è più stata la terra, ma ciò che quella terra conteneva. In questo paesaggio scorticato e in questi alberi impalliditi dalla polvere, ora, di quel passato restano solo pallide tracce. Il presente di questo paese racconta una storia diversa, la storia di una comunità che dopo tanto tempo ha deciso di sacrificare senza rimpianti il suo antico dio, la terra, in nome di una divinità nuova di zecca: la pietra. La fine del marmo, è un evento impossibile da immaginare. Chiedersi cosa potrà succedere dopo, qui, ha più a che fare con la fede che con la ragione.