Continua senza tregua il grande attacco alla contrattazione collettiva. L’arma di sfondamento oggi non è più quella (ormai trionfante) della flessibilità, ma quella, non meno subdola, della deroga. Con la deroga al contratto collettivo il lavoratore torna ad essere un indifeso homo singulus che si pone alle dure dipendenze dell’impresa che ne dispone con assoluta discrezionalità, obbligandolo a rinunciare alle più recenti conquiste del sindacato. Sempre meno civis (cittadino), dopo la sconfitta storica del movimento operaio, al lavoratore vengono sempre più negate le opportunità di essere socius, che con l’organizzazione collettiva tampona le debolezze che nella vita lo accompagnano come singolo. Eppure solo come socius il lavoratore può resistere alla potenza economica e sociale dell’impresa e costruire una dignità per il suo corpo che oggi pare tornato ad essere una pura energia lavorativa acquistabile a più basso prezzo nel mercato concorrenziale globale. La demolizione della contrattazione collettiva indica da questo punto di vista un mutamento molto regressivo.

La contrattazione collettiva, dal punto di vista storico-politico, segna una profonda discontinuità rispetto ai pilastri del capitalismo ottocentesco. Intimamente collegato alla comparsa del movimento operaio come attore politico e sociale, il contratto collettivo fa le sue prime comparse in Inghilterra attorno al 1890. Marx non ne aveva mai sentito parlare. Dopo le fugaci apparizioni inglesi, nel giro di alcuni decenni la contrattazione collettiva si diffonde e stravolge il nesso tra economia e diritto postulato dal capitalismo liberale. Le grandi elaborazioni dottrinarie sorte sul finire dell’800 e i primi del 900 puntano a ridefinire le categorie giuridiche poiché, come scrive lo storico del diritto F. Wieacker, “il diritto privato classico allora comincia a invecchiare”. Non si può più ricondurre la vita economica entro la metafisica del contratto individuale visto come il tranquillo paradiso della volontà del singolo che riconosce di assoggettarsi a un potere assoluto di direzione e organizzazione della sua vita quotidiana. Il postulato principe dei codici liberali, quello per cui tanto il padrone quanto il lavoratore sono entrambi astratti soggetti di diritto che, tramite il libero incontro delle loro individuali volontà, definiscono il contenuto dell’obbligo, mostra di essere la maschera che nasconde il duro volto della diseguaglianza. Solo come socius e non come singulus il lavoratore potrebbe ridimensionare la sproporzione di potere a favore del capitalista. Anche un giurista borghese come R. von Jhering propone in quegli anni “una teoria del carattere sociale dei diritti privati” in contrasto con la fondazione individualistica del codice che suggerisce una forma giuridica astratta come cieca misura dinanzi alla sociale differenza dei contraenti rispetto all’avere.

La tutela del soggetto più debole non viene affidata alla caritas, al buon cuore del capitalista o allo Stato paternalista ma alla forza organizzata del movimento operaio in grado di contrattare migliori condizioni di vita e di retribuzione per le classi subalterne. Oltre il codice civile che disegna il singolare contratto nel quale il principio di autonomia individuale delle parti si converte in una immediata dipendenza di una parte (lavoro) e in una sua estraniazione dai risultati del lavoro, si sviluppa un nuovo diritto: quello del lavoro, che concerne classi sociali. Il variabile rapporto di forza delle classi viene così registrato anche negli stampini formali del diritto che si abitua a cogliere nel facere del lavoratore anche l’esplicazione del suo essere persona, non solo forza lavoro. Il diritto del lavoro, un ramo specifico dell’ordinamento che non è né privato né pubblico, suppone proprio il superamento dell’individualismo possessivo e la considerazione dell’essere sociale del lavoratore. La contrattazione collettiva svela il duplice volto del contratto.

Esso per un verso è il meccanismo giuridico che stabilisce i modi della prestazione, i tempi e i vincoli organizzativi della subordinazione del lavoro sollevando l’impresa al rango di un ordinamento giuridico in grado di imporre regole organizzative e di comminare esemplari sanzioni disciplinari. Ciò conferma che sulla base della fictio juris del contratto l’impresa è “fondata sull’autorità e non sull’associazione, sulla disuguaglianza e non sull’uguaglianza” (E. Ghera). Per i giuristi liberali il contratto del resto ha un solo connotato: quello della creazione di meccanismi di comando e di obbedienza che palesano i tratti autoritari di un potere unilaterale dell’azienda sul lavoro. Ha scritto al riguardo G. Ferri che l’impresa non può che essere una “formazione sociale asimmetrica” dove il vertice aziendale raggruppa potere pieno sui dipendenti in virtù di una locatio hominis che, al pari del diritto antico, non riesce a distinguersi troppo dalla locatio bovis. In contrasto con queste formule proto-capitalistiche, la Carta del ’48 postula la necessità di una raffigurazione multidimensionale della vita del corpo che lavora colto nella sua interezza relazionale. Come notava il grande giurista S. Pugliatti, sotto la grande spinta del progetto costituzionale un nuovo diritto privato è maturato dopo le due guerre assediando così la “cittadella ritenuta per secoli inespugnabile: il diritto di proprietà”. Nella Costituzione repubblicana – egli proseguiva – “si ipotizza, senza possibilità di dubbio, una titolarità collettiva dei beni patrimoniali”. Per questo la stessa proprietà è ricondotta nella Carta a un’esplicita funzione sociale e si evoca la comunità e non il lavoratore uti singuli per tratteggiare la giusta retribuzione, l’azionabilità davanti al giudice ordinario del diritto alla salute ecc. Fino agli anni 80 questo modello di costituzionalizzazione del diritto privato ha funzionato come veicolo di cittadinanza sociale. Dopo c’è stato un cambiamento repentino e radicale di rotta. Dal bisogno che viene tutelato, a dispetto dell’autonomia contrattuale dei singoli colti come astratti atomi, si torna al principio del rischio come ineludibile (e da controllare con il sistema assicurativo privato).

La flessibilità, in questi anni, ha reso tutti così atomi irrelati nella magnifica società degli individui da lasciare in scena solo la pura e nuda corporeità priva di ogni protezione e sicurezza al cospetto delle parabole distruttive del mercato. Alla persona che lavora con un salario dignitoso è da tempo subentrata la riedizione della pura forza lavoro il cui saltuario salario sovente neppure basta più alla semplice riproduzione materiale della mera corporeità fisica. La contrattazione collettiva è l’ultima cittadella ostile che resta da espugnare. Già i nuovi contratti introducono flessibilità temporale, fissano la clausola elastica che impegna il singolo lavoratore ad accettare di aumentare la quantità di tempo per venire incontro alle esigenze organizzative e produttive dell’impresa. La volontà dell’impresa di fiaccare il contratto collettivo cerca l’affondo definitivo. Soprattutto in sistemi economici connotati, come quello italiano, dalla prevalenza di aziende di piccole dimensioni, la contrattazione nazionale centralizzata è un mezzo indispensabile al sindacato per strappare politiche salariali più favorevoli al lavoro (G. Giugni). Dinanzi alla riscoperta imprenditoriale della libertà illimitata di stipulare negozi uti singuli, si accresce la condizione di incertezza e precarietà che pone il prestatore d’opera alla completa dipendenza dell’organizzazione dell’impresa che reclama sempre più clausole flessibili e norme elastiche in merito all’orario, alla retribuzione, alla chiamata, al recesso, alla colpa e al danno, allo sciopero, al licenziamento disciplinare. Insomma: costruiscono un mercato del lavoro (e un’organizzazione della produzione) senza più il fardello della civiltà dei diritti e questa spudorata riscoperta della legge del più forte (l’avere) che strapazza i produttori (l’essere) la chiamano modernità.