Non sono poi così sorprendenti i risultati ottenuti all’indomani della riforma introdotta con il Jobs Act, perlomeno stando a quanto denunciano osservatori esterni come il Fondo monetario internazionale e l’Istat. Poco prima dell’estate, il primo ha rilasciato una previsione a dir poco preoccupante: occorreranno circa due decenni affinché l’Italia ritorni ai livelli occupazionali precedenti la crisi. I dati Istat, invece, hanno evidenziato che il tasso di disoccupazione nel mese di giugno è salito al 12,7 per cento, con l’allarmante picco giovanile del 44,2 per cento.

Ma che fine hanno fatto le raggianti aspettative sulle nuove assunzioni a tutele crescenti? Quanto bisognerà aspettare ancora, considerato che la scadenza per beneficiare degli sgravi fiscali è fissata al prossimo 31 dicembre? Effettivamente, in prima battuta, nei mesi di aprile e maggio, le agevolazioni (fino a 8.060 euro annui per dipendente) offerte alle imprese hanno prodotto una specie di effetto doping, registrando un’impennata del numero dei contratti a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato. Anche gli ultimi rapporti mensili a cura del ministero del Lavoro, relativi alle evidenze ricavate dal sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie, segnano un bilancio positivo, che però va visto con lente critica.

Nel mese di giugno 2015 ci sono state 821.544 attivazioni di nuovi contratti di lavoro di cui 145.620 sono contratti a tempo indeterminato, 565.191 a tempo determinato, 26.189 di apprendistato, 34.296 sono collaborazioni e 50.248 sono le forme di lavoro classificate sotto la voce “altro”. Considerando lo stesso periodo, sono dunque state oltre 34 mila le trasformazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato, a fronte delle 27 mila del 2014. A luglio sono stati attivati 137.826 contratti a tempo indeterminato e le trasformazioni da determinato a indeterminato sono state oltre 27 mila (al netto dei settori del lavoro domestico e della pubblica amministrazione).

Ma se questi numeri vengono analizzati in rapporto alle cessazioni – dovute a pensionamenti, mancati rinnovi o licenziamenti – ecco che l’entusiasmo cala notevolmente. Mentre un ulteriore ridimensionamento dell’effetto della manovra si evidenzia dalla correzione, avvenuta nei giorni scorsi, dei dati precedentemente diffusi. Il ministro Giuliano Poletti ha dovuto rettificare il numero dei contratti a tempo indeterminato registrati nei primi sette mesi dell’anno: 327 mila e non 630 mila. Non c’è dubbio che il saldo si mantenga positivo, ma ad attenuare la portata del risultato concorre il fatto che la maggioranza dei “nuovi” rapporti di lavoro non è altro che la conseguenza della stabilizzazione di precedenti posizioni precarie.



È questa la ragione per cui da più parti – in casa sindacale, ma anche tra gli osservatori economici – si sostiene quanto non sia corretto parlare di un reale incremento occupazionale. Il tutto mentre permane forte l’incertezza per il prossimo triennio, quando le aziende si ritroveranno a dover pagare i contributi dei propri dipendenti senza sconti. “Nei giorni scorsi con la correzione dei dati precedentemente pubblicati, ci siamo trovati di fronte all’evidenza di un’azione tesa a forzare la realtà attraverso la comunicazione – osserva Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio –. Il fatto è che, in particolare nel territorio laziale, abbiamo sempre assistito a variazioni occupazionali in termini di sostituzione e non di aumento, come dimostrano i numeri crescenti di cassaintegrati. A Roma e nell’intera regione sono calati gli attivi, mentre gli incrementi occupazionali post Jobs Act si può dire che sono davvero poco determinanti”.

Proprio nella provincia di Roma, nel cui territorio si registra una situazione peculiare dovuta alla forte presenza di aziende municipalizzate e di enti della pubblica amministrazione, l’andamento altalenante degli ultimi tre mesi è percepibile con estrema chiarezza. Nonostante la particolarità di cui sopra, i numeri che nei prossimi giorni verranno pubblicati online nel portale Roma Labor, segnalano un aumento dei contratti a tempo indeterminato, nel periodo che va da aprile a maggio. Una stima che, già a partire da giugno, appare tuttavia assai meno significativa, considerando il fatto che il picco del 40 per cento di nuovi avviamenti a tempo indeterminato, si è ridotto di cinque punti percentuali nel giro di un solo mese.

Un altro aspetto da segnalare, e particolarmente visibile nella capitale, è che la nuova disciplina ha lasciato invariato lo squilibrio tra uomini e donne: queste ultime restano penalizzate e sono principalmente i lavoratori uomini a ottenere contratti a tempo indeterminato dopo aver fruito di uno a tempo determinato (65 per cento uomini, a fronte del 35 per cento delle donne nell’ultimo mese). “Le donne, che negli ultimi cinque anni sono stati l’ammortizzatore sociale delle famiglie, adattandosi a fare piccoli lavori – spiega ancora Di Berardino –, ora non riescono più a trovare nemmeno quelli. Senza provvedimenti per rilanciare la domanda interna, resta tutto vano. Non solo nella capitale, ma a livello regionale la crisi è tangibile”.

Massimo Pallini, professore di Diritto del lavoro presso l’Università Statale di Milano e avvocato dello studio di Roma del network Legalilavoro, sottolinea la parzialità della riforma, che a oggi è circoscritta solo ai nuovi contratti di lavoro sottoscritti a partire dal 7 marzo. “Da solo il Jobs Act non basta per creare lavoro – afferma Pallini –. Deve cambiare il vento, nel senso che per le aziende deve diventare più conveniente adattarsi alle regole piuttosto che eluderle. Senza contare che, sul versante dell’attività ispettiva, va rivista la norma che esclude i controlli per i lavoratori iscritti agli ordini professionali”.