C’era un film che piaceva molto a Pietro Ingrao. Era il famoso “Tempi moderni” di Chaplin che per lo storico dirigente del Pci, innamorato del cinema, era un condensato di critica marxista allo sfruttamento del lavoro e alle sue conseguenze sulle persone. Si potrebbe, volendo, partire da qui, da questo originale modo di vedere il lavoro, per ricordare qualche aspetto di una figura così complessa come quella di Ingrao e scoprire che dalla sua concezione del lavoro si può cogliere una più ampia e generale idea della democrazia. 

Lo si capisce, in maniera evidente, leggendo il famoso discorso che Ingrao, da presidente della Camera, pronunciò nel 1978, in occasione dei trent’anni della costituzione, davanti agli operai delle acciaierie di Terni. Si tratta di un discorso molto importante, rimasto inedito per molti anni, che adesso ha trovato finalmente pubblicazione grazie a Ediesse nel secondo dei volumi della collana che raccoglie le sue carte.

In quell’occasione, Ingrao attribuisce ai lavoratori un posto centrale sia nella storia politica del paese sia nella nascita della Costituzione antifascista “perché – diceva – la classe operaia, anima della Resistenza, è stata la forza fondamentale da cui è nata la Costituzione della Repubblica”. In questo senso egli parlava degli operai come dei “fondatori”, dei veri “costituenti”, che non solo hanno fatto sì che la Repubblica fosse fondata sul lavoro, ma che sulla dignità e la crescita economica, culturale e umana dei lavoratori fosse concepita tutta la Costituzione. Tutto questo, però, ammoniva Ingrao, non rimane solo nella norma, ma si ottiene nella lotta quotidiana che propone il presente con le sue contraddizioni.

Pochi anni dopo questo discorso, l’Italia subisce profondi cambiamenti e, soprattutto, cambia il mondo del lavoro che inizia a transitare al postfordismo con gravi ripercussioni sui lavoratori, come evidenzia la vicenda della Fiat nel 1980. Si apre il tempo della progressiva sconfitta del lavoro, della riduzione dei salari, della diminuzione dei diritti dei lavoratori. Proprio in questa fase di crisi e di indebolimento dei grandi legami solidali, Ingrao dedica un’attenzione maggiore al tema del lavoro. E lo fa in maniera davvero esemplare per diverse ragioni a cominciare dal fatto che, pur analizzando un insieme di sconfitte, non cede a visioni apocalittiche. La sua analisi è, invece, sempre realistica e mirata alla ripartenza. Capisce, prima di molti altri Ingrao, che nell’indebolimento del lavoro inizia a venire meno il rapporto che lega quest’ultimo alla sinistra: un fatto preoccupante che mette a rischio l’esistenza stessa della sinistra, come poi, purtroppo, avverrà. Il suo tentativo è perciò lucido: ripartire dal lavoro cercando di comprendere quali sono le nuove cause di sfruttamento, alienazione, dissoluzione di legami sociali, per ricostruire soggetto politico e lotta politica. Era molto chiaro nelle sue analisi l’imporsi della cosiddetta società liquida (utilizzava negli anni Ottanta l’espressione “fluida”) alla quale occorreva porre rimedio creando socialità.

Nelle riflessioni dedicate da Ingrao al lavoro emerge anche un tratto di metodo più personale, dato da quella forte sensibilità che lo faceva realmente soffrire per chi viveva condizioni di sfruttamento. Nei suoi scritti, infatti, oltre al lavoro c’è sempre il lavoratore, la persona in carne e ossa, con un nome, un volto, una vita. Per questo, quando parlava di esuberi, licenziati, ciclo continuo, lavoro notturno, si metteva sempre nei panni dell’uomo per provare a vedere le ricadute sulla vita e cercare di dare quella forza e quella speranza per rialzarsi e ripartire. Un po’ come il protagonista di “Tempi moderni” che, nel finale, sprona la compagna a trovare il sorriso per incamminarsi insieme verso un avvenire più giusto.