Il modo migliore per affrontare il conflitto tra ambiente e lavoro è proseguire nel miglioramento degli impianti. Le parole pronunciate dal ministro Corrado Clini all’indomani dell’apposizione (virtuale) dei sigilli all’Ilva di Taranto sembrano provenire dal passato. Dai primi anni settanta, quando con l’adozione dello Statuto dei lavoratori si impose nel paese una nuova coscienza della “salute dei salariati”.

La storia delle lotte operaie contro la nocività dell’ambiente di lavoro è piena di vicende che, proprio a partire da quegli anni, possiamo – e con molte ragioni – definire esemplari.

A cominciare dalla vertenza Eternit di Casale Monferrato, che più di ogni altra ha visto il sindacato impegnato nel rifiuto del ricatto di dover accettare insostenibili condizioni di rischio pur di mantenere l’occupazione.

Una scelta certamente non facile, ma corrispondente a una grande visione strategica in cui la salute è concepita non solo come un bene individuale inestimabile, ma anche – come la definisce la nostra Costituzione – un interesse della collettività. Perché in gioco c’erano, allora a Casale, e ci sono oggi a Taranto, le condizioni di salute di un’intera popolazione, non solo quelle delle maestranze di un impianto industriale.

Ora, a 40 anni esatti dalla storica conferenza di Rimini, che vide 2.000 delegati di Cgil, Cisl e Uil definire la strategia sindacale di lotta contro la nocività e per il controllo dell’ambiente, segnando il punto più alto di quel movimento, i lavoratori sono messi ancora una volta di fronte a una scelta insensata e contro natura.

Mentre scriviamo, si susseguono per le strade del capoluogo jonico le proteste degli operai del colosso siderurgico. Iniziative più che giustificate, ma bisogna anche avere il coraggio di dire che a Taranto la magistratura ha riempito un vuoto e ha fatto quello che altri – le istituzioni, centrali e locali, e la proprietà – non hanno fatto in questi anni. Hanno ragione gli operai quando sostengono che il lavoro viene prima di tutto. Ma non può essere a qualsiasi condizione. E, soprattutto, non è giusto chiedere loro la responsabilità di decidere tra il lavoro e la salute, tra la vita e la morte.