Si chiama “Carta bianca” ed è la nuova collana, curata da Angelo Ferracuti, della casa editrice Ediesse. Una serie di libri scritti sul campo – con passione e rigore giornalistico – da scrittori, critici, antropologi, intellettuali che hanno voglia di mettersi in gioco con passione civile per raccontare storie nevralgicamente italiane, al presente, utili a creare dibattito nell’opinione pubblica. Inchiesta sociale, dunque, ricerca diretta, approfondimento giornalistico ma anche narrazione e racconto in prima persona. Quella che leggete nella pagina è l’anticipazione di un capitolo di uno dei due primi volumi che usciranno l’11 novembre. Si chiama Napoli bene. Salotti, clienti e intellettuali nella capitale del Mezzogiorno ed è stato scritto da Lucio Iaccarino, politologo, saggista e opinionista. In questo libro l’autore ci racconta quello che nessuno ha raccontato di questa città, soprattutto dei luoghi della borghesia, dei salotti dove è nato un nuovo e potente sistema clientelare. Se Saviano ci ha accompagnato nel cuore della Napoli camorristica e delle periferie degradate, Iaccarino ci racconta un’altra Napoli, quella istituzionale e del potere politico. Sempre a novembre uscirà per “Carta bianca” La Calabria brucia, di Mauro Minervino, antropologo prestato alla letteratura: uno sguardo allucinato sulle bruciature inferte dalla malavita organizzata e dal malgoverno delle città al paesaggio, al corpo sociale, all’economia. Questi i titoli di prossima pubblicazione: Giovanni Rinaldi, I treni della felicità; Andrea Carraro, A Roma, a Sud di Roma. Viaggio nelle periferie; Lorenzo Pavolini, Cento lire. La radio ai tempi della televisione; Angelo Ferracuti, Di Vittorio a memoria.


La prima volta che mi ritrovai nel distretto dei guantai fu a causa di Simona, una delle mie più care amiche. Anche lei era impegnata nel precariato universitario, oltre a essere una cultrice della lingua spagnola. Mi aveva invitato a cena, alla vigilia di Natale, ma tornai anche il giorno successivo. Le donne di casa avevano agghindato una elegantissima tavola natalizia ricca di sorprese e opportunità. La varietà era la regola e soltanto il vino restava sempre lo stesso Falerno del Massico rosso. L’antipasto della vigilia si componeva di cozze, cannolicchi e fasulari rigorosamente crudi ma tramortiti da una goccia di limone. Gamberi sbollentati con insalatina fantasia, preparati direttamente dalla mia collega. Uova tonnate e salmone con burro, noci e capperi dolci.Ancora antipasti che sfriggevano esplicitamente sulla tavola: all’italiana (arancini e crocchè), con pizzelle ripiene di cavolo e provola e poi una pioggia di baccalà e capitone. Il primo era rigorosamente risotto alla pescatora. Ma non mancavano le verdure: insalata di rinforzo, scarole ripiene di pinoli e olive nere, poi broccoli baresi al limone. Le pietanze non erano soltanto saporitissime ma si presentavano esteticamente raffinate, in una coreografia di piatti che disegnavano alimenti a forma di stelle natalizie piuttosto che alberi di Natale. Il giorno seguente la tavola proponeva altre meraviglie, come prosciutto e melone; minestra e tagliolini in brodo di gallina; capretto paesano cucinato a trittico: alla brace, al forno con patate e piselli, e con piselli e uova; salsicce con provola e friarielli; parmigiana di melanzane (congelate preventivamente); e ancora noci, nucelle, castagne, mandorle, fichi e datteri. Il piatto forte della signora Giovanna, padrona di casa, era la pastiera, rigorosamente composta con ricotta e grano passato e religiosamente accolta dal calore dei commensali. Chiudevano cassata siciliana, struffoli e roccocò.

A casa di Simona consigliavano, prima di andare a letto, il pigiama con la molla, per non soffrire le pene dell’abbondanza. Suo padre, Gennaro Forino, era il proprietario di una fabbrica storica di guanti che si tramandava da oltre tre generazioni. Dopo la lunga cena, parlammo della possibilità di svolgere una ricerca antropologica sul suo quartiere, raccontato con gli occhi del guantaio. Sarebbe stata un’ottima occasione per il pool di dottorandi del mio ciclo. Tutti ragazzi con i quali avevo un’intensa frequentazione e condividevo il desiderio di fare ricerca anche autonomamente, in una stagione caratterizzata dalla scarsa indipendenza dei giovani che non potevano muovere un dito se non avevano il nullaosta dei propri responsabili scientifici. Il padre della mia amica venne informato delle nostre intenzioni. Così cominciai a frequentare con maggiore assiduità il laburismo di quella famiglia napoletana, entrando in fabbrica più di frequente e lasciandomi raccontare tutte le fasi che dal taglio della pelle conducevano alla confezione del guanto. Cominciava ad aprirsi una visuale ricca di possibilità, specie per una città come Napoli, raccontata fin dentro le sue viscere, spesso tralasciando le zone d’ombra, sebbene fossero proprio queste ultime a celare relazioni sociali virtuose. L’impresa era di quelle rampanti, posizionata sul mercato nazionale, come fornitore di importanti marchi, e con solide nicchie nel mercato internazionale.

Il distretto dei guantai si trovava nel vecchio centro storico della città, nella Sanità, ma disponeva di un indotto che interessava le aree metropolitane di Afragola, Casalnuovo e Casavatore. In totale gli addetti erano circa duemila, senza contare le concerie, l’imballaggio e le etichette, che ne raddoppiavano la cifra. In città gli opifici avevano un piede nella lunga durata e i giovani eredi di questa tradizione erano ostinati a proseguire sulle orme dei padri, ponendosi fra i trenta e i quaranta anni, al timone di piccole imprese, ognuna con una decina di dipendenti. Il comparto si richiamava alla memoria settecentesca e ottocentesca, rivendicando, come propri, i fasti della “Napoli capitale”. Ma molti erano i problemi di tenuta, specie quando la scala nella quale i padroncini del guanto andavano a operare si allargava a livello globale. Nel Napoletano si concentravano le subforniture, mentre i marchi che tiravano le fila erano quelli che rendevano vincente l’Italia all’estero (Versace, Ferragamo, Armani, Cavalli, ecc.). Circa il 94 per cento di tutti i guanti made in Italy provenivano dal distretto napoletano. Di fatto, il 40 per cento della produzione era destinata al mercato nazionale e il 60 era diretto a quello internazionale. Dagli Stati Uniti al Canada, alla Russia, al Giappone ma anche durante gli inverni freddi di Germania, Inghilterra e Francia, era possibile stringere mani preservate in finissime rifiniture nostrane. E persino i guanti vestiti nel cult-movie Titanic erano stati lavorati nel centro storico di Napoli dai commensali con cui trascorrevo quel felice Natale. Tuttavia, la crescente tropicalizzazione del clima non giovava a recuperare nuovi clienti. La sfrenata concorrenza dei cinesi, sempre più attrezzati nelle manifatture del cucito d’ogni genere, minava le posizioni di mercato raggiunte, costringendo i marchi più solidi a specializzarsi in singole fasi come la commercializzazione. Pertanto le pelletterie italiane del Centro-Nord (Firenze e Milano) sceglievano di dismettere la produzione del guanto, demandandola ai cugini napoletani.

Nonostante l’importanza che il comparto aveva nell’economia cittadina, la nostra ricerca stentava a trovare finanziatori. Nel pool dei dottorandi avevamo scelto il nostro etno-metodologo Pietro Saitta, per la sua straordinaria capacità di mimetizzarsi nel contesto di ricerca. L’impresa di famiglia della mia amica era disposta a sostenere alcune spese come l’alloggio. In cambio di un lavoro in fabbrica, il nostro ricercatore avrebbe avuto la possibilità di costruire il suo racconto etnografico.

Avremmo raccontato la Napoli del lavoro sommerso, le sue inquietudini e avremmo sollevato le questioni più avvertite da parte degli operatori economici, attraverso un ascolto urbano recuperato con tecniche qualitative hard come interviste in profondità e osservazione partecipante (simulata e dissimulata). Sapevamo, ad esempio, che proprio il taglio del guanto, vale a dire la fase dove maggiori erano le sensibilità artigianali, non riusciva a trovare degni successori. Era Gennaro, come capomastro e capofamiglia, a scegliere la pelle, a riconoscere le venature, per tracciare la prima impronta su cui sarebbero intervenuti, a seguire, tutte le altre figure artigianali. Ed erano davvero tante, visto che il guanto, prima di essere pronto, necessitava di oltre venti passaggi. D’altro canto, i rischi di estinzione riguardavano anche altre maestranze, come quella delle cucitrici, rintracciate all’interno di circuiti informali, ma la cui professionalità andava sostenuta con appositi progetti pubblici. Poco prima dell’inizio della ricerca, Pietro fu chiamato a New York per un contratto annuale d’insegnamento e la nostra indagine non andò più in porto. La frustrazione di non essere riusciti a operare dispiacque a tutti. Così mi ripromisi di riparlarne in futuro, perché l’estinzione di questo patrimonio culturale faceva perdere alla città un pezzo verace del nostro modello di sviluppo locale.